Maria (2024) di Pablo Larraìn
di Letizia Piredda
“Dimentica la musica e vivi” le dice la sorella Iakinthi per scuoterla dalla depressione.
In queste parole c’è tutta la tragedia di Maria, ormai immortalata come divina per la sua voce bellissima potente e trasgressiva insieme (spesso non rispettava le regole imposte dalla musica) e proprio da qui Larraìn parte, proprio dal punto di contraddizione massimo del suo personaggio, Maria Callas di cui racconta l’ultima settimana di vita. Ed è con Maria che si conclude idealmente la trilogia di donne icone novecentesche iniziata con Jacky e proseguita con Spencer.
Lo stile inconfondibile di Larraìn e il suo spessore teorico partono proprio da questa capacità di destrutturare la figura pubblica operando uno squarcio tra la sconfinata estensione del mito e la claustrofobica realtà quotidiana, tra immagine pubblica e fuoricampo privato. Il tutto avvalendosi della solida sceneggiatura di Stephen Knight.
Maria Callas non può più cantare in pubblico, le sue precarie condizioni di salute non glielo consentono: passa le sue giornate confinata nella sua casa parigina, in preda ai suoi fantasmi, tanto che mentre guardiamo il film non sappiamo mai se quello che vediamo è reale o frutto della memoria o dell’immaginazione o delle allucinazioni. L’unico elemento umano presente nella fase finale della sua vita, è l’affetto dei servitori Ferruccio e Bruna, un Favino e un’Alba Rorwacher eccellenti nei loro ruoli, che costituiscono la famiglia che non ha mai avuto.
Ma il controcampo del film, che inizia con una morte, è la voce della Callas che sovrasta e vivifica ogni cosa e che viene addirittura disegnata con un magistrale scatto dal basso in alto della m.d.p. segnandone la traiettoria mentre sale espandendosi per tutta la sala del teatro.
L’interpretazione di Angelina Jolie, premio Oscar, riesce a raggiungere vette inaspettate non solo per quanto riguarda l’aspetto fisico, con quelle movenze da “regina”; ma anche nel trasmette l’affanno interiore della Callas, le sue oscillazioni tra moti di rivalsa del suo mitico passato e l’estrema fragilità del presente, rivelando una sensibilità non comune.
Il film procede punteggiato da inserti d’archivio, tra bianco e nero e colore, scorre in un flusso di memoria inarrestabile che mette insieme Jackie e Marilyn, JFK e Onassis, La Traviata e Anna Bolena che ci travolge e resta impresso travolgendoci con una forza emotiva di rara potenza.
Campo di battaglia di Gianni Amelio
di Giulia Pugliese
La Prima Guerra Mondiale è poco o comunque meno trattata della più gloriosa Seconda Guerra Mondiale, più scenica per armamenti, mole umana, più connaturata dal punto di vista della giustizia e della grandezza dell’impresa: sconfiggere i nazisti. La Prima Guerra Mondiale per l’Italia, rappresenta un passaggio cruciale per l’unificazione di un paese che comunque continuava ad essere disgregato (il film di Amelio lo sottolinea giustamente più volte) e per l’attecchimento della successiva dittatura. A Venezia 81 ci sono ben due film in concorso che parlano della Prima Guerra Mondiale: Campo di Battaglia e Vermiglio di Maura Delpero.
È curioso che l’opera di Amelio si chiami Campo di Battaglia, perché nonostante sia chiaramente un film di guerra, non vediamo né le battaglie né scene di combattimento. Il vero campo di battaglia è l’ospedale, dove più che salvare i pazienti, si cerca di renderli idonei a tornare a combattere. L’incomunicabilità è un tema centrale del film, non è solo dei vari soldati che parlano dialetti diversi e per questo non riescono a fare fronte comune, ma anche tra il popolo e il governo che non si comprendono, il primo usato letteralmente come carne da macello e il secondo che cerca di nascondere l’epidemia di spagnola causando ancora più morti. Il film ha una prospettiva interessante sulla guerra, ci parla infatti di uomini disperati, non c’è nessuna gloria o onore, solo la paura di tornare nel campo di battaglia, tanto da rendersi disabili o fingere di essere matti per non tornarvi. Questa prospettiva inedita arricchisce il film che per la prima parte, è davvero molto centrato, anche nel rapporto tra Giulio (Gabriel Montesi, a tratti fuori fuoco nella sua recitazione) e Stefano (un inedito e cupo Alessandro Borghi, ma quel finto labbro leporino sarà stato fatto per assomigliare di più a Joaquin Phoenix?) che è ben delineato. Gli aspetti veramente interessanti di questo film, sono l’uso della corporeità estrema, quasi cronerberghiana, il corpo mutilato diventa strumento per scappare dalla realtà e il personaggio di Stefano, mortifero e taciturno angelo della morte o meglio della mutilazione. Fino all’ultimo ci chiediamo se voglia veramente aiutare i militari che popolano l’ospedale o se sia un sadico prestato a questo intervento umanitario. Stefano si contrappone appunto a Giulio che invece porta avanti una battaglia, non legata alle sue convinzioni, ma al dovere della sua posizione e per il retaggio famigliare che rappresenta. L’opera mette in chiara contrapposizione un personaggio, quello di Giulio che segue gli ordini e uno che per umanità disobbedisce, quello di Stefano.
Poi il film si perde in una seconda parte che vorrebbe parlarci di contemporaneità, il passaggio tra la prima e la seconda parte non è armonico, risulta legnoso e la seconda parte non è centrata. Inoltre non è chiaro il raffronto che l’opera vuole fare con il presente: se lo Stato Italiano nella Prima Guerra Mondiale tenta di nascondere l’epidemia di spagnola, perché la guerra in corso è più importante, non mi sembra che lo stesso stato non sia intervenuto durante pandemia di Covid. La seconda parte che si focalizza sulla creazione di un vaccino per la spagnola, risulta lenta e meno interessante. Il film di Amelio sembra infatti contenere due film diversi, inoltre la regia è molto teatrale (vedi la scena della confessione del soldato e le corse in ospedale) risulta stridente per un film che dovrebbe essere calato nel reale e che spesso usa registri neo-realisti (l’uso del dialetto e i bambini malati alla fine). Infastidisce l’inserimento di un personaggio femminile Anna (Federica Rosellini), che oltre a essere antipatico e inutile, non arricchisce per nulla la trama, neanche nell’intreccio amoroso che ancora una volta appare forzato.
Il film avrebbe dovuto mantenere la tematica iniziale e farsi guidare dal personaggio di Stefano, tenendolo nella sua ambiguità. Un’occasione mancata per fare una denuncia reale sulla brutalità della guerra, sulla disperazione di chi la combatte e sulla necessità della disobbedienza civile (in una scena appare Emma Bonino). Gianni Amelio avrebbe potuto mettere in scena un lungometraggio crudo e franco, a tinte neo-realiste, che avrebbe ricordato i grandi film di guerra degli anni ‘60, concentrati sulle vicende umane, più che sullo spettacolo della guerra ed avrebbe fatto centro.
MARCO – Venezia Orizzonti
di Lorenza Del Tosto
Esiste in Spagna un certo tipo di cinema, sconosciuto ai più, ed esiste alla Mostra di Venezia una sezione geniale: Orizzonti. Quando i due universi si incontrano capita che piccoli gioielli come Marco, destinati al godimento di pochi, arrivino a sorprendere un pubblico più grande e qualche giornalista si avventuri, sotto il caldo infuocato del Lido, per venire a conoscere gli autori in uno spazio assolato accanto all’Hotel Des Bains, ormai in disuso.
Aitor Arregi, Jon Garaño e José Mari Goenaga registi, sceneggiatori e produttori baschi, raccontano una storia che, pur ambientata in Catalogna fuori dai loro Paesi Baschi, continua a scavare, come tutto il loro cinema, nelle zone in ombra della storia spagnola recente e nei misteri della natura umana.
Misterioso di sicuro è il protagonista, interpretato da un gigantesco Eduard Fernandéz: un vitalissimo signore che per molti anni ha fatto credere, non solo all’opinione pubblica, ma alla sua stessa famiglia, di essere stato prigioniero nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg.Carismatico, affabulatore, ammirato per il suo coraggio, Eric Marco viene eletto presidente dell’Associazione Spagnola delle Vittime dell’Olocausto. Fino al giorno in cui un giovane storico scopre che il suo racconto è totalmente inventato.
Eccoci qui con Aitor Arregi, una bella barba bianca e occhi da Mago Merlino e Jon Garaño, barba scura e sguardo profondo, che immuni sembrano al caldo infuocato di questo spazio all’aperto dove molti si accasciano ai margini sventolando ventagli. Bruciano di una passione sotterranea che traspare evidente negli occhi di Aitor e rimane più celata dietro il sorriso e i modi composti di Jon. Sono loro i due registi del film e José Mari è lo sceneggiatore. Perché la triade ha un modo tutto suo di lavorare che Aitor ci tiene a spiegare con orgoglio: loro tre si sono conosciuti 25 anni fa e già dal primo corto, girato in grande spirito di collaborazione, hanno adottato un metodo di lavoro sui generis . A seconda del progetto, due si occupano della regia e il terzo della sceneggiatura, alternandosi.
Sorride, come se stesse offrendo all’ascoltatore accaldato una ricetta segreta, un metodo di lavoro caldamente consigliato a tutti. Sciorina i titoli dei loro film indicando di volta in volta, puntigliosamente, chi erano i registi e chi lo sceneggiatore. Per non creare fraintendimenti e dare merito a ciascuno.
“Soltanto ne La Trincea Infinita eravamo tutti e tre alla regia. Ma …abbiamo capito che è troppo” strizza l’occhio divertito “e siamo tornati al 2 più 1.” Una formula con cui hanno girato corti, lungometraggi, documentari, e ora anche una serie su Disney+ sull’enigmatica figura dello stilista Balenciaga, vincendo premi Goya e candidature agli Oscar.
E se sfuggente è la figura di Balenciaga, non lo è certo da meno Enric Marco, che non ha risparmiato i suoi inganni neanche ai nostri registi. Tra bugie, battute d’arresto e tradimenti, la lavorazione del film è durata 18 anni. Non c’è dunque da stupirsi del loro sollievo per l’opera finita ora che Marco, deceduto,da poco, all’età di 101 anni, non potrà escogitare nuovi tranelli.
Aitor espone con slancio la travagliata vicenda, lasciando spazio a Jon che perfeziona il racconto con pochi tocchi pacati, in una prova di collaudata collaborazione: quando, nel 2005, viene fuori lo scandalo sulla sua vera identità, il finto deportato, invece di murarsi in casa per la vergogna, accorre ad ogni programma di radio e Tv per dare vita a nuove varianti del suo personaggio. A quel punto la triade propone ad Enric Marco di girare un documentario su di lui. Proposta che l’interessato accoglie con enorme entusiasmo.
“Iniziamo a vederci e a registrare interviste, tutto va a gonfie vele, finché un bel giorno ci comunica che deve allontanarsi per andare a recuperare, in Germania, certi documenti a prova del suo soggiorno in carcere. Ci sembra interessante, gli chiediamo che ce ne parli, ma lui si scusa dicendo che si tratta di questioni personali. Parte e…non lo vediamo più… Dopo abbiamo scoperto che era in Germania a girare un altro documentario, con altra gente.”
Ed è il documentario che appare anche nel film che, in un gioco di specchi, per ritrarre un personaggio tanto manipolatore, usa materiali d’archivio e pura finzione, all’inizio nettamente separati e poi, via via, indistinguibili.
“Anni dopo, nel 2010, al Festival di San Sebastián ce lo vediamo spuntare davanti. Ci porta in omaggio la butifarra. “ L’insaccato di maiale tipico della Catalogna di cui il protagonista, nel corso del film, fa omaggio a chiunque possa aiutarlo nella sua ambizione. “Ci spunta davanti e ci chiede di riprendere il discorso del documentario. Non era soddisfatto del precedente e ne voleva uno migliore. Superato lo shock iniziale lo abbiamo inchiodato per tre giorni serrati di interviste. Senza mai mollarlo.”
“Ma si è scusato per il tiro che vi aveva giocato?”
Scuotono la testa.
“Era una persona a cui costava molto chiedere perdono. Non rispondeva mai alle nostre domande, dava altre risposte. Dovevamo marcarlo stretto e anche così non funzionava.”
“E avete continuato a fidarvi di lui?” Chiede il giornalista stupito.
Jon prende il suo tempo per rispondere. E’ una domanda importante che riguarda l’essenza stessa del loro cinema.
“Noi volevamo, sì, raccontare la vicenda, ma soprattutto volevamo capire: perché ha fatto quello che ha fatto? Un’enormità fingere su un tale orrore. E perché, una volta scoperto, è rimasto afferrato al suo personaggio? C’era un aspetto picaresco nel suo dannarsi per la sua fama.”
Nel silenzio le domande restano sospese nell’aria.
“Certo la vanità ha il suo peso.” Riprende il filo Jon “Ma credo che a muoverlo fosse soprattutto il bisogno di uscire dalla sua vita grigia, diventare una persona più interessante di quella era. Essere amato, rispettato e ammirato. Aveva scoperto di avere un grande potere con le parole, raccontava storie appassionanti e voleva continuare a farlo. Non accettava di uscire di scena. Non è poi diverso dal bisogno di ammirazione che oggi dilaga sui social media. Tutti vogliono sembrare migliori di quello che sono.”
Si avverte qualcosa negli occhi e nelle parole di Aitor e di Jon mentre cercano di spiegare il loro personaggio, senza mai riuscirci. Come se, nonostante tutto, il mistero fosse rimasto tale. Nonostante i molteplici inganni e le risposte elusive, non possono negare che Enric Marco, con la sua manipolazione, abbia dato voce ai sopravvissuti ai campi di concentramento nazista che la Spagna ha costretto al silenzio. Finita la Seconda Guerra Mondiale, Franco ne ha impedito il ritorno in patria, costringendoli a restare in Francia.
Enric Marco ha colto, in questa vergognosa zona di silenzio, la sua possibilità. Ha dato loro voce nelle scuole, nelle università e ovunque. Nel 2005, grazie alla sua tenacia, per la prima volta, dopo 60 anni dalla fine della guerra, il parlamento spagnolo ha aperto le sue porte ad un sopravvissuto. Che non lo fosse si è scoperto solo dopo.
“Il nostro Paese ha difficoltà a fare i conti con il suo passato. Molti non vogliono ricordare che c’è stata una dittatura.” Dice Aitor. “Noi invece vogliamo ricordare. “Difficile trovare il tono e il modo per raccontare una storia che oscilla tra gravità estrema e la picaresca di un imbroglione disposto a tutto pur di essere ammirato. Dall’idea iniziale del documentario sono passati alla forma ibrida e poi alla pura finzione. Chi meglio del cinema può raccontare il gioco infinito di verità e menzogna nelle nostre vite?
“Che prospettiva usare? Un occhio esterno? O la testa di Marco? Non potevamo giudicare il nostro personaggio, anche se ben si prestava, e neanche assolverlo.”
(Come fanno, nella realtà, moglie e figlia di Enric Marco ed è un peccato che nella sfera personale del personaggio gli autori non si addentrino.)
“Una storia che giudica il suo personaggio nasce zoppa e non va lontano. Così abbiamo optato per un punto di vista intermedio. Lasciamo che sia lo spettatore a decidere.”
I giornalisti, che si sono avventurati sotto il sole rovente per discutere di questo grande mistero, ora si allontanano pensierosi tra la folla dei viali della Mostra dove tutti scattano foto. Dove tutti si mettono in posa per farsi vedere, guardare e ammirare. Vanità della vanità.
Il film uscirà nelle sale italiane e magari qualcuno tra gli spettatori troverà una chiave, o un indizio tra il materiale d’archivio, che aiuti a capire il mistero di questo bisogno d’amore che solo l’ammirazione sembra appagare e che i 18 anni di lavoro non son riusciti a svelare.
Nel film sono infatti presenti immagini d’archivio e di finzione dapprima esplicitamente differenziate; poi anche le immagini di repertorio sono ricostruite, in una soluzione che ricorda non poco Jackie di Pablo Larraín; nel finale, quando è ormai chiaro quali siano gli aspetti reali e quali quelli inventati della vita di Marco, il film porta a compimento un arco opposto, in cui i due piani si integrano e si confondono, con sequenze in cui le immagini di repertorio e quelle di finzione sono montate una di fianco all’altra, indistinguibili. Se quindi nella vicenda del protagonista è fondamentale individuare dove stia la verità, fondamento totale della sua testimonianza, nel cinema si ha un’inversione di quest’idea, essendo al contrario una materia, quella filmica, che scaturisce esclusivamente da un’alterazione della realtà stessa.
Il primo ciak del film davanti alla mdp non viene tagliato, e nel momento di massima tensione, quando Enric Marco si vede costretto ad ammettere le proprie bugie, di nuovo la mdp si palesa come in mockumentary, e dal film di quest’ultimo – mattatore assoluto per due terzi della durata complessiva per merito di una prova spessa, densissima, di Eduard Fernández – si passa al film vero e proprio, in cui con un’impennata repentina il Marco-personaggio inizia a interagire e a sovrapporsi col Marco-persona, fino a dialogare con lo stesso Cercas grazie a un campo/controcampo con i filmati di repertorio di un aperitivo letterario, in una spirale di confusione dei vari livelli diegetici.
Marco è l’ultima creatura del cerbero Arregi-Garaño-Goenaga, nuovamente a loro agio fuori dai confini baschi e non affatto intimoriti dall’uso dello spagnolo in luogo dell’euskera che ne contraddistingueva la poetica fino a poco fa. Cambia la geografia (siamo in Catalogna) ma non l’ispirazione politica del discorso della coppia di registi (e del loro fedele collaboratore), giacché l’oggetto di indagine è nuovamente il periodo franchista, e più nello specifico la memoria storica della transizione democratica in Spagna. Tratto dal romanzo L’impostore di Javier Cercas.
Why War? (2024) di Amos Gitai
di Letizia Piredda
Con questo film Amos Gitai vuole porre il quesito per eccellenza in un momento in cui siamo dilaniati da guerre che tendono ad espandersi e a moltiplicarsi, mentre le trattative di pace diventano sempre più fumose e inesistenti. A questo scopo riprende lo scambio epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud, che nei primi anni ’30 furono invitati dalla Società delle Nazioni a riflettere e dialogare sul perché della guerra. Concepito proprio all’indomani dell’assalto di Hamas e della terribile offensiva israeliana, Why war tenta di stabilire un dialogo con la cruda realtà presente in Gaza, partendo dalla ferrea convinzione che anche il cinema può e deve influire cercando in tutti i modi di arrestare le atrocità della guerra.
Mescola consapevolmente i due linguaggi: il documentario e la fiction, tanto che non è stato facile decidere dove collocarlo, ma quello che conta è la riflessione e l’introspezione a cui sollecita ognuno di noi.
Con Susan Sontag il regista si chiede come reagiamo noi al bollettino di guerra e alle scene di distruzione che immancabilmente la TV ci porta in casa ogni giorno, prolungando inevitabilmente la guerra. Cerchiamo di fare qualcosa? O siamo costretti ad allontanare quel continuo bombardamento mediatico? Riporta l’accusa di Susan Sontag e Virginia Wolf che il genere maschile favorisce la violenza, mentre Einstein a suo tempo invocava un’autorità sovranazionale in grado di arrestare le guerre, e Freud affermava amaramente che Eros e Thanatos sono impulsi innati e strettamente collegati l’uno all’altro. Ma sono valide ancora oggi le posizioni di Freud e Einstein ?
Alcune scene del film
Nella precedente opera Shikun (2024) quasi un’installazione artistica aveva rappresentato tutto lo sconcerto, il senso di smarrimento e di follia di fronte al conflitto israelo-palestinese, manifestando apertamente la sua posizione fortemente critica nei confronti del proprio governo. E ora con questo film in cui si mescolano documentario e finzione, dove non si vede mai la guerra, con le sue vittime e la sua distruzione, e la sua devastazione, si chiede e ci chiede coinvolgendoci con una forza straordinaria di riflettere, di andare a fondo, di mobilitarci, di essere presenti su questa realtà terribile che riguarda tutti, ognuno di noi.
Amos Gitai
“Non c’è niente da vincere, tranne la morte” aveva detto in un’intervista, e così con artisti di cinema e di teatro che godono pienamente la sua stima, quali Irene Jacob, Mathieu Amalric, Micha Lescot e altri, riesce ad attualizzare quel dibattito tra Einstein e Freud che risale a un secolo fa, ponendosi e ponendoci di nuovo di fronte a uno degli interrogativi più dilanianti che possano esistere per il genere umano: Why war? Ma riuscendo a spezzare e ad arrestare, anche se per poco, il continuo inarrestabile fiume di immagini di distruzione e di morte.