Il ritorno di Twin Peaks: l’incubo dell’America che era (e che non smetterà mai di essere).

di Nicola Adamo

Nel 2017, a 25 anni dalla conclusione della serie originale I segreti di Twin Peaks (1990-
91) e del film Fuoco cammina con me (1992), David Lynch e Mark Frost hanno riportato in
vita il misterioso mondo di Twin Peaks con una terza stagione (spesso indicata
semplicemente come Twin Peaks: Il ritorno): non si tratta di un semplice revival nostalgico,
ma di un’opera radicale, complessa e disturbante che rilegge l’America contemporanea e il
suo inconscio più oscuro, inconscio che prima va in una direzione, poi ritorna, e dopo
cambia rotta ancora una volta ed in maniera più cruda, grottesca, surreale…
Chi si aspettava una continuazione fedele allo stile della serie originale, si è ritrovato a
vedere un ritorno che spiazza. Il ritorno abbandona quasi del tutto la struttura da soap
opera noir degli anni ’90 per assumere la forma di un’opera più sperimentale e
frammentata: la narrazione si svolge in 18 episodi, girati come un unico lungo film, e
alterna momenti di estrema lentezza a esplosioni di violenza e surrealismo, ma non il
surrealismo del buon Luis Bunuel, un surrealismo che va al di là anche delle “altre realtà”
nate dal genio di Lynch stesso.


Dove prima c’erano le dinamiche di una cittadina di provincia che celava misteri, ora c’è un
mondo disgregato, frantumato in mille storie e ambientazioni – da Las Vegas al South
Dakota, passando per l’astratto regno della Loggia Nera: il tutto è solo uno dei tanti
frammenti di un’America che ha perso la bussola.
Per comprendere appieno Il ritorno, è necessario ricordare ciò che Twin Peaks ha lasciato
come eredità di quel passato che percepiamo presente più che mai. La serie originale
rivoluzionò la televisione perché mescolava generi, alternava ironia e orrore e suggeriva
che dietro la superficie perfetta della provincia americana si celassero abissi di corruzione,
violenza e dolore: la storia della giovane Laura Palmer – apparentemente dalla vita felice e
perfetta, in realtà vittima di abusi da parte del padre posseduto da un’entità malvagia – era
una critica feroce al mito della famiglia americana, quella famiglia che anche noi in Europa
e in Italia abbiamo imparato a conoscere e sempre più mitizzare, elevandola quasi a
sinonimo di vita perfetta, e perfino, a volte, giustificare pur di non infrangere quell’illusione
onirica a cui tanto ancora tutt’ora i più ambiscono.


Il film Fuoco cammina con me, inizialmente stroncato ma oggi rivalutato, proseguiva su
quella strada: abbandonava quasi del tutto il tono ironico e si concentrava sulla tragedia
personale di Laura, rappresentando in modo crudo e diretto il trauma dell’abuso e la
discesa negli inferi dell’anima (se mai ci fosse stata…). Il ritorno riprende questi fili e li
rielabora con ancora più radicalità: il male che infestava la cittadina ora si è espanso
ovunque, l’orrore è in ogni angolo dell’America.
Il cuore della terza stagione è un’analisi simbolica e spietata della società circoscritta ad
un’America allo specchio con se stessa. I personaggi sono spesso persi, alienati,
anestetizzati: l’agente Dale Cooper, eroe positivo della serie originale, qui appare
frammentato in diverse identità, infatti abbiamo il malvagio “Mr. C.”, l’ingenuo Dougie
Jones, e solo infine il vero Cooper, anche se rispetto all’originale che avevamo conosciuto
sembra avere sempre meno di vero oramai. È come se l’identità americana – e forse
quella umana – fosse andata in frantumi, in cui il bene ed il male stessi iniziano a fare
parte di una finzione che ai nostri occhi si palesa prepotentemente come vera, e unica,
realtà conosciuta.
Il famigerato episodio 8, la puntata più bella e visionaria mai andata in onda nella storia
della TV, mostra l’origine del male come una conseguenza diretta del test nucleare del
1945: una riflessione potente sul peccato originale della modernità americana e militare in
generale.

Anche la rappresentazione del tempo è significativa: tutto è fermo e, allo stesso tempo,
tutto sta svanendo: il sogno americano degli anni ’50 – che tanto affascina Lynch – è ormai
solo una patina nostalgica, sotto la quale si agita un’angoscia silenziosa, eppure così
rumorosa. Twin Peaks non è solo una cittadina immaginaria, ma un simbolo dell’intero
paese, oggi diviso, in crisi, che non sa più come tornare indietro e rimettersi sulla retta via.
Un altro tema centrale è quello del trauma e del ruolo che ha all’interno della vita. Come
già nel film del ’92, anche qui il trauma – individuale e collettivo – non scompare, ma si
ripete, si reincarna, si nasconde nei dettagli: il ritorno di Laura Palmer, nel finale della
serie, è ambiguo e disturbante perché non ci permette di capire se si tratta di un tentativo
disperato di salvezza. O forse sarà una nuova condanna che ci vuole punire sbattendoci in
faccia il fatto che il passato non potrà mai essere riscritto?!
Lynch sembra suggerire che il dolore, se non viene affrontato, si ripete in forme sempre
più astratte e spaventose: la società rappresentata in Il ritorno è una società che ha
rimosso i suoi traumi, ma che ne subisce ancora le conseguenze, le quali, non solo sono
sempre più dolorose, ma sono accompagnate da un alone di imprevedibile mistero che
spiazza ogni volta che se ne presenti una.


Twin Peaks: Il ritorno non è una serie facile e di certo non necessita di una conclusione
vera e propria. Richiede attenzione, pazienza, e una certa predisposizione a lasciarsi
confondere: ma proprio per questo è una delle opere più importanti della televisione
contemporanea, quella televisione che ancora oggi non riesce più a mandare in onda un
qualcosa di così unico e che non può, ma soprattutto non vuole, scendere a compromessi
con il pubblico. Non offre risposte, non consola, non chiude i cerchi, è un viaggio nel lato
oscuro della psiche americana, ma anche una riflessione su cosa significa ricordare e
dimenticare, con l’incessante necessità di cercare redenzione che non sa più come farsi
spazio tra i nostri pensieri: in un’epoca televisiva dominata dalla serialità “usa e getta”,
Lynch e Frost hanno creato qualcosa di raro.
Twin Peaks è un’opera che sfida lo spettatore, che riflette sul presente attraverso i
fantasmi del passato e che, pur parlando di demoni, logge e sogni, ci racconta molto –
forse troppo – di noi stessi, e che va “Oltre la vita e la morte”, e, come ci insegna la serie
stessa, oltre la realtà…

Informazioni su Nicola Adamo 2 Articoli
Nicola Adamo, 28 anni, è nato a Mazara del Vallo, vive a Trapani ed ha una forte passione nello scrivere in terza persona anche quando dovrebbe farlo in prima. Laureato in Discipline delle Arti dello Spettacolo, con specializzazioni in Recitazione e Discipline cinematografiche, coltiva da sempre un profondo amore per il cinema e le serie TV, soprattutto quelle in cui, in maniera semplice ed in modo non troppo diretto, evidenziano una situazione sociale non lontana dalla nostra. Da qualche tempo si dedica anche alla scrittura come soggettista cinematografico, vantando l’accredito, anche della sceneggiatura, del cortometraggio “Il mistero dei Sant’Elno”. Appassionato di sociologia, ama osservare la società attraverso lo sguardo della macchina da presa, cercando storie che raccontino l’animo umano e le sue trasformazioni: non esiste mutazione umana di cui il Cinema non riesca a parlarne.

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