Presence di Steven Soderbergh

di Giulia Pugliese

“Ricordati che tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per te” – Rebecca a Tyler

Pochi film riescono a essere sia una riflessione sulla comunicazione cinematografica che sull’epoca che trattano, sia un ritratto intimo e personale. Presence è in modo sbalorditivo tutto questo.
Steven Soderbergh, che è uno dei registi contemporanei più sottovalutati, continua il suo viaggio nella ricostruzione dei generi. Dopo il parzialmente riuscito Black Bag, una spy story che è più una riflessione sul matrimonio e sul cinema contemporaneo, rivisita l’horror, ribaltandolo allo stesso tempo. Il tutto senza intaccare l’inquietudine e l’intento politico di questo genere.
Non solo quindi la storia di una famiglia americana tormentata da una presenza nella loro nuova casa, ma anche una riflessione sui tormenti interni di questa famiglia, dove i membri spesso si nascondono cose, si mentono: c’è qualcosa di marcio e non limpido nelle dinamiche relazionali. Già dalla prima scena è chiaro come l’apparire e il mentire siano più importanti della sostanza e a volte, degli affetti.
La trama è molto semplice: una famiglia americana, in apparenza perbene, compra la casa dei sogni vicino al migliore distretto scolastico, l’arreda con gusto e sofisticatezza. Può sembrare qualcosa di già visto, ma quello che colpisce subito lo spettatore è la messa in scena: la telecamera diventa la soggettiva di questo spirito. Quello che sembra estremamente banale e convenzionale diventa un delicatissimo intreccio tra stile registico e storia, dove la sceneggiatura permette degli incastri anche molto estremi, senza perdere linearità e diventando un’estrema ricerca di un racconto dell’odierno e del nucleo centrale della società americana: la famiglia. Questa presenza extra-naturale diventa una metafora più profonda per spiegare le inquietudini che albergano in tutti noi: di non essere abbastanza, di non essere abbastanza amati, di non fare abbastanza per chi amiamo, ma anche della mostruosità umana. Il film si basa anche su una sorta di voyeurismo hitchcockiano (non a caso la madre, interpretata da Lucy Liu, si chiama Rebecca), perché la presenza è anche l’occhio dello spettatore e del regista, che scava e viviseziona questa famiglia piena d’imperfezioni, ma anche molto umana. L’attenzione dello spettatore si concentra sul capire che cos’è questa presenza e sul capire che cosa vuole, ma questa è solo un pretesto per parlare d’altro, e soprattutto è un modo per scavare di più in certe dinamiche oscure.

Presence ci rimanda, per certi versi, al cinema delle origini come L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov e al thriller anni ’60 L’occhio che uccide di Michael Powell. Il film è tra l’altro, un grande saggio sul cinema contemporaneo, sulla comunicazione moderna e sul raccontare una storia scardinandola, senza però essere una lezione di stile. Infatti, potrebbe essere un film che rimane imbrigliato in logiche sperimentali, di ricerca e di tecnica, ma invece quello che prevale è la curiosità, l’entertainment e la storia. Come nel grande cinema la storia va di pari passo con la messa in scena. L’intreccio narrativo è particolarmente delicato e potrebbe anche spezzarsi ma invece rimane solido.
Steven Soderbergh nasce come regista indipendente, che scrive e monta i suoi film, abituato a lavorare con la fantasia per compensare piccoli budget. Anche in questo film usa una tecnologia semplice e minimale ma allo stesso tempo sbalorditiva: ogni scena è girata in piano sequenza e con tagli finali netti, come se la casa fosse un palcoscenico teatrale e i tagli la divisione in atti. Ma c’è anche un forte studio sul movimento degli attori e sulla luce (che è un punto di contatto con Black Bag), che dà l’idea della complessità con cui è stato realizzato il film. Strumenti semplici e alla portata di tutti, ma che riescono a trasporre idee complesse che diventano grande cinema.
Tutto è anticipato e ribaltato: non solo la soggettiva, ma tutto quello che avviene. Lo spettatore vive la stessa inquietudine dei protagonisti e si rivede in loro. Il film fa un lavoro sottile di mimesi e di confronto, riuscendo nel suo intento di scavare e approfondire, ma non perde mai la sua idea centrale di thriller/horror. Il film riprende vagamente alcuni echi di Personal Shopper di Olivier Assayas: anche in questo caso si parla di una porta socchiusa.

L’ultimo film di Steven Soderbergh è sottile, riuscito, mette insieme capacità tecniche e grande narrazione. Scuote la comunicazione cinematografica e lo spettatore, dimostrando come un’idea semplice ma studiata e con intenti chiari, sia efficace senza far perdere di vista il motivo centrale per cui si va al cinema: per emozionarci, spaventarci, stupirci e capire.

Informazioni su Giulia Pugliese 48 Articoli
Giulia Pugliese Scrittrice Educazione 2011 - Master in EUC Group & CEERNT European Project 2006/2010 - Laurea triennale in Cooperazione allo sviluppo Esperienze lavorative 2024 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Odeon 2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online I-Films 2022/2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Long Take Premiazioni Vincitrice del concorso di scrittura per la critica cinematografica over 30 indetto da Long Take Film Festival quinta edizione - 2023

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