Valeria Bruni Tedeschi e Pietro Marcello: Eleonora Duse e la grande arte di lasciarsi destabilizzare

di Lorenza Del Tosto

È iniziato settembre e alla 82 Mostra del Cinema di Venezia qualcosa è cambiato nell’aria ed in sala. Può capitare in questo festival a cavallo tra due mesi: tra il fulgore di agosto e la sospensione pensosa di settembre. Tra l’esaltazione dell’oblio estivo e il raccoglimento trepido per l’autunno che inizia.
Così al Festival ci sono i film di inizio kermesse con sfoggio di divi e sdilinquimenti sul tappeto rosso, e i film di settembre su cui aleggia una luce incerta e dorata. E in questa luce sono immersi Valeria Bruni Tedeschi e Pietro Marcello, rispettivamente interprete protagonista e regista e cosceneggiatore di DUSE. Siedono al tavolo, di pomeriggio, una accanto all’altro per gli incontri con la stampa estera. Fuori si intravede il mare azzurro e gli alberi che fiancheggiano questa villa appartata del Lido.
Sono belli, molto belli entrambi e poco divi: Valeria Bruni Tedeschi in blue jeans, maglietta a righe bianca e rossa e gli occhi azzurro scuro pieni di fermento.   Pietro Marcello, alto, scuri i capelli, la carnagione e l’abito, lo sguardo penetrante e il sorriso indecifrabile. 

I giornalisti stranieri si succedono al tavolo, avidi di domande. Conoscono Eleonora Duse di fama, la divina, una delle più grandi attrici di tutti i tempi, ma non è facile per loro cogliere i tanti aspetti della vita e della storia italiana nell’arco di tempo che il film racconta. Tra il 1918 e il 1923: la fine della prima guerra mondiale e l’inizio del ventennio fascista. Dopo Martin Eden è nota la passione di Pietro Marcello per le immagini di repertorio e in Duse le immagini che più hanno colpito sono quelle del Milite Ignoto che, trasportato dal treno, percorre l’Italia.
“Quelle immagini contenevano un grande messaggio di pace, erano un luogo per madri, vedove e famiglie per piangere i loro cari, ma poi il fascismo ne ha fatto merce di propaganda per le sue guerre coloniali.” Spiega Pietro Marcello.
Il giornalista annuisce e rilancia con nuove domande storiche e regista e interprete esitano un istante prima di assecondare il suo gioco.
Perché cosa c’è dietro queste domande se non il desiderio di scrivere un articolo avvincente per i lettori stranieri su un film che, nonostante le migliori intenzioni, le lunghissime ricerche e l’indubbia genialità di attrice e regista, è un film non riuscito? Lo ha già capito Pietro Marcello? Per questo si protegge con le risposte su la grande Storia?  Quando è che qualcosa ci diventa chiaro? E che chiarezza può esserci nella visione ad un Festival dove un film si succede ad un altro, dove tutti corrono con il loro badge al collo di sala in sala mentre l’aria si riempie di commenti, giudizi, lamentele, dove ogni idea è data in pasto freneticamente e gli occhi sono saturi di immagini al punto che sedersi sulla spiaggia a guardare il mare frangersi sui moli è l’unico spettacolo che riempie il cuore?
DUSE andrà visto con calma, altrove, lontano da qui. Perché qui, al Festival, c’è un senso di oppressione: l’arte non ci ha salvato. L’arte non basta quando il mondo va in rovina.
Altrove sarà di certo possibile sostenere la carica di disfacimento che il film trasmette, avendo scelto di raccontare gli ultimi anni della Duse.
“Volevamo raccontare gli anni della dissoluzione come quello che stiamo vivendo. Un periodo senza speranze. Un momento in cui i soldi del potere avevano impagliato gli artisti. Mussolini voleva chiuderli in una gabbia: D’Annunzio e la Duse.” Dice Pietro Marcello. “Amo il cinema, posso realizzare ogni fase di questo mestiere, sto dietro la macchina da presa, so montare e curare il suono, ma odio l’industria culturale attuale.” E ricorre a una delle tante citazioni che scandiscono le sue risposte, lui che è innanzitutto, come ama definirsi, un archivista, un documentarista, un raccoglitore di memorie.
“Come dice T.S. Eliot il presente ed il passato sono entrambi presenti nel futuro.”
“Visto che della Duse non resta quasi nessun documento, è lecito porsi la domanda: chi era la Duse?” Gli chiedono.
“Vero. Ci sono poche foto, l’unica registrazione della sua voce è andata persa. C’è il film che ha interpretato: Cenere, ma l’esperienza del cinema l’aveva traumatizzata. Il nostro, comunque, non è un biopic, ma una trasposizione dello spirito della Duse. Il cinema è finzione. Valeria ne ha incarnato lo spirito…Abbiamo girato in uno stato di grazia.”
Valeria Bruni Tedeschi, che di sicuro ha imparato a scavare nella dissoluzione e ad estrarne passione e folle speranza, interviene.

“Nessun trauma. La Duse amava il cinema, nel periodo in cui aveva abbandonato le scene ci andava ogni giorno, per studiarlo. Solo aveva capito che il cinema, all’epoca, non amava le donne della sua età.”
Conosce bene la Divina, ne ha studiato, a fondo, ogni risvolto.    
“Non ho cercato di essere la Duse, né di nascondere l’accento francese quando parlo in italiano, perché era ciò che lei faceva: cercava sempre la verità. Era una ricercatrice dell’anima. Amava la solitudine raccolta e pensosa. Era conosciuta ovunque: la amavano Čechov e Strasberg che ne ha fatto il modello del suo metodo all’ Actor’s Studio.”
Vuole che la stampa estera vada via di qui sapendo tutto il possibile, anche tutto quello che il film non può dire.
“Solo in Francia non era nota, perché la grande Sarah Bernard non lo ha permesso. Nella scena in cui la Bernard aggredisce la Duse, capiamo che l’accusa non è rivolta alle doti attoriali della rivale che sono immense, ma alla scelta del repertorio antiquato. Perché se è vero che la Duse ha rotto con il manierismo e ha incarnato la modernità ispirando tutta la rivoluzione attoriale successiva, è anche vero che il teatro italiano, all’epoca, era vecchio.  E comunque la Duse, lo capiamo dalla sua reazione alla Bernard, aveva la grande capacità di lasciarsi destabilizzare.” Lasciarsi destabilizzare vuol dire non farsi distruggere dal fallimento, affrontare i crolli e usarli per crescere.  Se Valeria Bruni Tedeschi non ha imitato la Duse, se non ha voluto essere lei sulla scena, pensiamo, è perché le somiglia nella vita. Con questo suo look che rifugge dal trucco al pari della Duse che non si truccava mai per andare in scena.
“Ho cercato di conoscerla” continua “come conosci una persona in treno, che casualmente ti racconta la sua storia e ti sembra di conoscerla da sempre.”


Gli incontri in treno di un tempo, in cui la gente parlava, si conosceva e quando scendevi ti sembrava di aver fatto un viaggio in un’altra vita.
“Ho avuto una coach americana, Geraldine Baron, che amava molto la Duse, d’estate ci portava ad Asolo a fare dei laboratori nei monasteri.”
Asolo, dove la Duse è sepolta: nel 1919 ospite di un’amica se ne era innamorata e vi aveva comprato una casa.  
“Geraldine adorava la Duse, ci parlava sempre di lei, come donna e come artista. Diceva che l’arte e la vita vanno insieme, tenendosi per mano, si può essere veri artisti solo se si è vere persone.” Quel ricordo le scalda il cuore, porta memorie di giovinezza, bellezza e armonia. Geraldine, a cui Valeria ha dedicato il suo ruolo nel film, sembra sia venuta a sedersi attorno al tavolo, in questa villa circondata dagli alberi, lontana dal frastuono. E aiuti a correggere le false impressioni che alcuni giornalisti potrebbero trarre, ad esempio dalla scena dell’incontro con Mussolini.
“La Duse non va da Mussolini perché lo apprezza. Ci va per chiedergli di costruire un teatro. Era un’ingenuità la sua. La Duse credeva davvero che Mussolini lo avrebbe costruito. Che fosse affascinato dall’arte e dalla bellezza.”
Quella dell’incontro con Mussolini, dice Valeria Bruni Tedeschi con la sua voce inconfondibile e i suoi occhi dove il blu si fa sempre più intenso col crescere della passione del racconto, è la sua scena più amata. Non quella che lo spettatore vede sullo schermo. Ma quella che lei ha girato mettendoci tutta l’anima, tutta la timidezza, tutta la speranza di chi incontra colui che sembra disposto a realizzare ogni suo sogno. “Ero così felice di quella scena e solo all’ultimo mi sono accorta che Marcello non stava filmando…”
Ride, con quella sua risata amara e contagiosa.
Ed è forse cogliendo quella risata che un giornalista le chiede: “Ci dica cosa c’è di unico in Pietro Marcello”
“L’impegno morale.” Risponde senza la minima esitazione “Più che morale il suo senso dell’etica. E davvero sono in pochi a conservarlo. E poi il suo modo di accogliere gli attori.”
Pietro Marcello, seduto accanto a lei, sorride. E a noi fa molta tenerezza. Ci vuole tanto coraggio ad affrontare il fallimento e a sorridere. Coraggio e umiltà. Al giornalista che lo interroga sull’evoluzione del suo stile, prima sperimentale, poi più classico con Martin Eden, ora meno classico, lui risponde con una leggera stretta di spalle:
“Spero di tornare presto ai miei piccoli film, è arrivato il momento di ponderare cosa voglio fare. Quando inizi hai talento e non hai esperienza. Poi hai esperienza e non hai più energia.” Sorride, un sorriso di settembre. “Bisogna che a guidarci sia sempre una necessità. Un’urgenza interiore. Devo fermarmi e capire. A volte noi registi ci sentiamo tanto importanti, ma, mi creda, il nostro lavoro non vale l’impegno di un bravo maestro delle elementari.”

Un’altra sottotrama del film richiama l’attenzione: il rapporto di Eleonora con la figlia Enrichetta, interpretata da una bravissima Noémie Merlant. “Si amavano moltissimo madre e figlia.” Dice Pietro Marcello “ma erano due persone agli antipodi. Enrichetta era cresciuta in scuole religiose ed era molto credente. Non è un caso che entrambi i suoi figli abbiano preso i voti. Enrichetta alla morte della madre ha bruciato tutto il carteggio con D’Annunzio.”
“Sembra che per la Duse l’arte fosse più importante della figlia.” Nota qualcuno.
“No. Le lettere tra madre e figlia sono bellissime” Valeria si infiamma. Le ha lette tutte, quelle lettere. Possibile che la gente si ostini a fare questa separazione? “Ciò che la Duse era nell’arte lo era anche nella vita. Non c’è arte separata dalla vita.” L’invisibile Geraldine annuisce e sorride. “Per la Duse Enrichetta era la persona più importante. Era la sua ossessione. Amava il teatro e amava la figlia.  Per loro lottava. La Duse ha lottato fino alla fine. Nonostante la tubercolosi e l’intimazione a fermarsi da parte del medico, lei è andata avanti.” C’è quasi una disperazione nella sua foga “Non ha mai smesso di cercare di aprire la porta chiusa.”
E mentre un giornalista va e uno viene, senza rivolgersi ad un interlocutore particolare, seguendo l’immagine della porta chiusa, Valeria Bruni Tedeschi racconta , quasi in un sussurro, una storia che commuove. La storia dell’ultima rappresentazione della Duse che esula dall’arco temporale del film.  “Era l’aprile del 1924 la Duse era a Pittsburgh dopo una lunga ed estenuante tournée negli Stati Uniti e a Cuba, quella sera c’era una bufera. L’autista che l’accompagnava a teatro si è sbagliato e l’ha lasciata all’ingresso di servizio che era chiuso dall’interno. Il segretario corre in teatro per farla aprire, ma passa del tempo, e la Duse, mal riparata sotto il diluvio,  continua a forzare la porta chiusa. Ha 65 anni, e i polmoni stremati dalla tubercolosi, ma deve recitare. Quando finalmente la porta si apre lei è fradicia e scossa dai brividi. Singolare coincidenza: il cartellone del teatro quella sera annunciava “La porta chiusa” di Marco Praga.”
I suoi polmoni cedettero alla polmonite che ne seguì. È morta il lunedì di Pasqua del 1924.
Il pomeriggio è corso via. Si arriva alla prima proiezione in sala con il pubblico. Grandissima tensione, ma poi anche quella passa. Come tutto, come passerà settembre e trascorrerà l’inverno. Tornerà l’estate e l’illusione di un sole eterno e luminoso.  “Personalmente ho posizioni anarchiche e amo le persone in rivolta come la Duse, come Martin Eden, le persone che sanno dire no e detesto gli ignavi. Oggi il mondo è pieno di ignavi e questo fa del nostro tempo, un tempo senza speranze.” Ha ripetuto Pietro Marcello, con la sua dolcezza e il suo modo affabile. Perché se tutto passa, non passa però invano. Non è stato invano la DUSE. Pietro Marcello ora è un uomo in rivolta capace di fallire e di lasciarsi destabilizzare.  

Informazioni su Lorenza Del Tosto 31 Articoli
Lorenza Del Tosto Vive a Roma con le sue figlie e il gatto Leo. Interprete di Conferenza free lance. Tra le sue passioni: le serate di chiacchiere con gli amici, il cinema, la letteratura e l’Aikido. Ha una rubrica Lost in Translation con ritratti di attori e registi per cui lavora. Ha vinto un’edizione del Premio Loria per racconti inediti ed è arrivata finalista in altri concorsi letterari.

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