
di Giulia Pugliese
Guillermo Del Toro riporta sullo schermo il classico di Mary Shelley, discostandosi dal libro per alcuni aspetti della trama e dando al film elementi nuovi e diversi dalle altre trasposizioni cinematografiche. Il film ha l’enorme pregio di rivisitare i due personaggi principali: Victor Frankenstein non è l’amorevole padre della Creatura, ma un uomo mosso dall’ambizione, la cui vita è segnata dall’orribile rapporto con il padre e incapace di empatizzare con la sua creazione. Il dottor Frankenstein, nell’opera, è un personaggio psicologicamente problematico e a tratti delirante. Alla Creatura, invece, viene dato spessore psicologico e sensibilità: per certi versi, la Creatura di Guillermo Del Toro è qualcosa di puro e infantile, alla ricerca di un padre che Frankenstein non può essere e di qualcuno con cui condividere la vita, perché capisce immediatamente che non sarà accettato dagli uomini.
Il Frankenstein di Guillermo Del Toro è un fantasy politico con una sontuosa messa in scena, che trova la sua forza visiva nei personaggi femminili, a cui regala bellezza estetica (come il drappo rosso della madre di Victor, quando il padre torna alla tenuta, o il vestito da sposa sporco di sangue). Tuttavia risulta meno forte esteticamente e visivamente rispetto ad altri film del regista messicano. L’opera infatti è lontano dalle logiche cinefile, corporee e dall’estetica dark tanto amata dal regista, che rappresentano la sua autentica forza.

La storia, appesantita dalla divisione in capitoli, viene portata avanti attraverso i punti di vista distinti dei due protagonisti, come nel libro. Il personaggio di Elizabeth, interpretata da Mia Goth, è un’eroina con spessore che tuttavia risulta secondaria: non riesce a prendersi lo spazio che poteva avere, e che avrebbe creato maggiore interesse nel personaggio, ponendola alla pari dei ruoli maschili.
Frankenstein è un film altalenante, con picchi e cadute, ma alla fine rimane un buon film d’intrattenimento, rovinato però da un finale forzato e buonista, mentre la narrazione sembrava portare verso un conflitto brutale e realistico. La storia di Frankenstein è l’esperienza del diverso, meno “Mostro” dell’umano: un tema già visto in molti film hollywoodiani, in primis Edward mani di forbice, che qui non porta alcuna novità e soprattutto appare come una riflessione vecchia e ritrita.
Il film risulta eccessivamente pomposo e melodrammatico: poteva premere di più sull’azione e sulla conflittualità tra personaggi, anche eccettuando gli aspetti romantici o sessuali. Il film, infatti, appiattisce anche la dimensione corporea: i brandelli di carne si intravedono appena e il Mostro somiglia più a un personaggio di Avatar che a un insieme di frattaglie umane. Invece il continuo edulcorare gli aspetti adulti, vitali e bellici della pellicola la rende una fastidiosa favola Disney, che il romanzo non è. L’opera avrebbe dovuto virare di più sulla crudeltà del mondo verso il diverso e su una messa in scena sbalorditiva, che Guillermo Del Toro è perfettamente in grado di orchestrare.

Il regista della Forma dell’Acqua realizza il suo colossal, un film ad alto budget con un grande cast: Oscar Isaac, Jacob Elordi, la già citata Mia Goth, Christoph Waltz ed effetti speciali di ultima generazione. In cambio, però, sacrifica parte della sua autorialità visiva e firma un film che, per idee e intenzioni, potrebbe essere uscito dagli anni ’90. Invece era proprio nell’idea di fare un grande film autoriale che si doveva ritrovare la sua forza. Un film vecchio per messa in scena e morale. Un necro-cinema che non ha più senso, specie se non è neanche personale.
Commenta per primo