
di Letizia Piredda
Alla domanda “perché ha fatto questo film?” Ozon ha risposto : “Perché sono folle!”
In effetti quella di Ozon è un’impresa e una sfida che deve fare i conti con il precedente adattamento di Luchino Visconti (1967) con Marcello Mastroianni come protagonista e soprattutto con il fatto che è estremamente complicato riportare al cinema un capolavoro letterario di cui ognuno si è fatto una propria messa in scena.


Ozon affronta la sfida attualizzando la storia, ma restandone fedele. Inevitabile il richiamo a Bresson sia per la scelta del bianco e nero che dà al film un’aura quasi metafisica, sia per il lavoro in sottrazione per rendere il vuoto esistenziale del protagonista Meursault, un giovane di trent’anni, impiegato, che vive le cose così come accadono, senza mai porsi domande e senza un coinvolgimento emotivo: tutto gli scivola addosso. Al funerale della madre non versa una lacrima, subito dopo inizia una relazione con Marie, una sua collega, ma non le dice “ti amo” perché è inutile, finchè viene travolto in loschi affari dal vicino che lo porteranno alla tragedia: l’uccisione di un indigene, la prigione e il processo, dove pesano più la sua indifferenza e le convenzioni sociali che il crimine in sé.




Ozon intreccia più livelli: l’adattamento letterario, la memoria coloniale, la riflessione filosofica. Memoria coloniale che pesa ancora con i suoi silenzi come una ferita aperta. E il giovane Meursault diventa una metafora contemporanea che guarda con la stessa indifferenza alla vita come alla morte.
Bravissimo Benjamine Voisin che regge al meglio la prova attoriale, anche nel confronto con Mastroianni, ma bravi anche gli altri attori, soprattutto Rebecca Marder, la giovane sensuale e piena di emotività, l’esatto opposto del protagonista.
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