È stata a suo modo una presenza rivoluzionaria nel nostro cinema, Monica Vitti. Per il percorso, per la duttilità, per le facce che ha cambiato e le strade che ha inaugurato. Il suo ingresso nel cinema italiano era possibile solo nel cinema degli anni 60, con un pubblico nuovo che si affacciava, nuove generazioni e nuove sensibilità, disponibili ad accogliere quella presenza così strana, quella voce roca, quel volto da bassorilievo romanico. Fino allora, infatti, era stata più spesso doppiatrice (e lo sarà ancora, poco dopo, dando la voce alla moglie di Accattone nel film di Pasolini). Proprio come doppiatrice di Dorian Gray nel Grido (1957) l’aveva conosciuta Michelangelo Antonioni, che l’aveva voluta come protagonista dell’Avventura.

Così era diventata simbolo delle donne tormentate, alienate, incomunicanti, sperse tra paesaggi assolati o metropolitani (la Milano e la Roma della Notte e dell’Eclisse) o industriali (Deserto rosso). Per un malinteso senso del glamour la prese Joseph Losey in un curioso film di spionaggio da un fumetto, Modesty Blaise – La bellissima che uccide (1964), curiosità pop d’epoca. Ma c’era una seconda rivoluzione in arrivo, che avrebbe fatto di Vitti la prima attrice comica protagonista del nostro cinema. Non la prima attrice comica, non la prima caratterista; ma la prima a reggere una commedia da protagonista senza puntare su aspetti caricaturali (come Tina Pica) e a poter reggere alla pari, non da bella ma da coprotagonista, la sfida coi grandi attori della commedia. Solo la grande Franca Valeri ci era andata vicina, ma il fisico la imbrigliava in pochi ruoli, o forse il nostro cinema non era ancora pronto. Il passaggio sorprese molti: ma del resto, allieva dell’Accademia d’arte drammatica, nella sua breve carriera teatrale aveva lavorato accanto a Sergio Tofano, in spettacoli ispirati al suo personaggio del signor Bonaventura.

Il film con cui si fa segnare la svolta è La ragazza con la pistola(1968) di Monicelli, in cui, donna siciliana ferita nell’onore, inseguiva il suo seduttore fino in Inghilterra, in parrucca e impermeabile nero di plastica. Ma già c’erano stati, poco prima, ruoli di rilievo in quel senso: un episodio di Le fateTi ho sposato con allegria di Salce, La cintura di castità di Pasquale Festa Campanile. Alla commedia rimarrà da allora sostanzialmente legata, con qualche eccezione in prestigiosi film d’autore (La pacifista di Miklos Jancso, 1971, ma soprattutto Il fantasma della libertà, 1974, di Bunuel) e un ritorno con Antonioni per Il mistero di Oberwald (1978), da Cocteau. È nella commedia che Vitti trionferà, negli anni 70, sapendola innervare di una malinconia tutta sua (“E mi struggevo dalla malinconia…” ripete in tribunale, in A mezzanotte va la ronda del piacere di Marcello Fondato), in personaggi piccolo-borghesi e proletari spesso travolti dalle nuove dinamiche famigliari e sessuali, di tradimenti, separazioni e amori incrociati. Erano gli anni del femminismo, e di una commedia erotica e un po’ incanaglita: le trame, in fondo, erano le stesse della trilogia di Antonioni, ma l’alienazione era diventata farsa (“Di che natura è il mio male? Ho avuto un trauma? Sono sotto shock? È un disturbo neurovegetativo? O è perché sono mignotta?”, così il personaggio di Dramma della gelosia). Con un che di bovaristico nel suo essere donna del popolo sognante o borghese in crisi, divisa tra due uomini appunto in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), o in A mezzanotte va la ronda del piacere di Marcello Fondato, in cui prendeva una quantità di sonore sberle. Quanti ceffoni ha preso la Vitti negli anni 70 e 80 fin da Amore mio aiutami, sulle dune di Sabaudia….

Con Sordi, nel suo periodo peraltro meno felice, farà altri due film, e la ricordiamo in Polvere di stelle (in cui faceva la soubrette, come spesso le capitava, ironica e sexy, vestita da hawaiana su un osceno couplet); ma Sordi era in decadenza, e il film più divertente di Vitti in quegli anni è forse una vecchia pochade rifatta da Luciano Salce, L’anatra all’arancia. E rendeva bene anche in costume, da belle époque o da Ottocento, (La ToscaNinì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa), perché questa icona della modernità aveva al fondo qualcosa che la legava alle eroine soccombenti e timorose del cinema italiano, con quegli occhi spalancati e la voce che sembrava sul punto di rompere in pianto, poteva essere sofisticata o abbrutita, sempre però guardando  il personaggio con un distacco ironico.

Vita, tra felicità e tristezza
La carriera di Vitti è stata segnata anche dalle sue relazioni sentimentali, anche se nessuno dei suoi compagni successivi le regalerà ruoli all’altezza di Antonioni. Carlo Di Palma, grande direttore della fotografia, si trasformò per lei in regista in un paio di occasioni, a metà anni 70 cercando di unire comico e drammatico (Teresa la ladra, tratto dal libro di Dacia Maraini, e Mimi Bluette… fiore del mio giardino). E Roberto Russo, suo compagno degli ultimi decenni, le cucì addosso un paio di film sfortunati, Flirt (1983) e Francesca è mia (1986), che ancor più puntavano su una dimensione intimista e crepuscolare. Altrettanto sfortunato fu il suo unico tentativo da regista, Scandalo segreto (1990), col quale si conclude la sua carriera cinematografica. Dal 2002, Vitti scompare dalla scena pubblica, segnata da una malattia degenerativa, con Russo che è rimasto al suo fianco fino all’ultimo, mantenendo un riserbo assoluto sulla sua vita.
Per saggiare la straordinaria varietà del suo talento, la guida migliore è un film a episodi che le cucì addosso Dino Risi nel 1971, Noi donne siam fatte così: popolana, donna di mondo, hostess, motociclista acrobata, suora, operaia… Una varietà esaltata anche da un libro di un anno fa, E siccome lei di Eleonora Marangoni, raccolta di 47 racconti ognuno ispirato a un personaggio dell’attrice. Come se nella sua varietà di ruoli si trovasse, per quanto il cinema lo ha consentito, un ritratto multiforme del nostro Paese, fatto di donne smarrite e di desideri mancati, forse non per caso.

[Di Emiliano Morreale, da la Repubblica online del 2 febbr. 2022]