Il guaritore di Brian Friel. Alla ricerca della verità e della identità

28 Novembre 2019

Pino Moroni
artapartofculture.net

Per introdurre la rappresentazione de Il guaritore, per la regia di Riccardo De Torrebruna, al teatro Lo Spazio occorre ricordare alcuni tratti essenziali dello scrittore l’irlandese Brian Friel. Considerato al pari di scrittori come Samuel BeckettArthur MillerHarold Pinter. Caratteristica delle opere di questo riservato, timido e cocciuto uomo della società rurale nord irlandese in evoluzione (nato a Omagh nel 1929 e morto a Greencastle nel 2015) è stata l’esplorazione dell’animo umano nelle dinamiche familiari, nel rapporto uomo donna e nell’introduzione al lavoro ed alla società.

Friel amava scrivere racconti più che opere teatrali (anche se alcune corte storie sono state rappresentate a teatro) e soprattutto usando tecniche di avanguardia, nelle parole, nel linguaggio e nei significati (non dimentichiamo che l’Irlanda ha avuto sempre due comunità con due linguaggi, il gaelico e l’inglese).

Friel fu il fondatore del Field Day Theatre ed ha ricevuto molti premi e riconoscimenti per le sue opere, rappresentate all’Abbey Theatre, al London West End e a Broadway. Naturalmente ha fatto parte dei movimenti irlandesi per i diritti civili ed alle più importanti sue manifestazioni compresa la Blood Sunday protest del 1972.

Nel suo personale ed originale stile di scrittura prevalgono il calore umano, lo humour e la malinconia in una fusione completa mentre la sua filosofia è quella della ricerca delle molteplici verità, rivelate da ogni suo personaggio sul banalizzante ma pieno di sfaccettature vivere quotidiano, in una magica terra fatta di riti e superstizioni.

Sul muro del teatro Lo Spazio un manifesto: Spettacolo di Frank Malone – Il Guaritore – Solo per questa sera. Un piccolo tavolo centrale, una seggiola, una bottiglia ed un bicchiere. Quattro monologhi per tre attori in una pièce difficile nelle parole e nella storia tormentata di tre personaggi (Frank Malone guaritore, Gracie moglie/amante, Teddy manager). Ma se la storia è sempre la stessa, una storia comune (il guaritore in viaggio in Galles, Scozia ed Irlanda), la verità si dimostra inattendibile visto che il ricordo di ogni personaggio è diverso perché ognuno la racconta a proprio modo. E si sa bene che la memoria si stratifica nel tempo con le personali soggettive modifiche, determinate dal corso della vita, con le aggiunte e le omissioni che fanno più comodo per la propria coscienza.

Riccardo De Torrebruna è un guaritore credibile, intenso in quel suo alone di mistero intorno ai suoi poteri taumaturgici, alla ricerca di una risposta ai tanti dubbi che lo attanagliano (il suo spettacolo è magia od ha un suo potere curativo) ma è anche alla ricerca di una identità, con un senso di umanità per la gente ed allo stesso tempo con un aplomb che cerca la distanza dalla vita degli altri. Non si saprà mai se il suo potere, a tratti intermittente anche se alcune guarigioni sono avvenute, sia una dote miracolosa o le guarigioni stesse frutto di autosuggestione.

Gracie, una dimessa e sofferta Angela Sajeva nel suo monologo è una donna che tristemente invecchia, bevendo, piena di rimpianti. È stata sempre un sostegno per Frank, materiale nel cucinare ed accudire il furgone e spirituale nel sostenerlo in momenti critici spingendolo a realizzare le sue doti di guaritore. Ma è anche critica per la sua mancata riconoscenza tanto che lo ha abbandonato ed è tornata dalla sua famiglia. Ricorda di aver sofferto per essere stata trattata da Frank sempre come un amante e non da moglie, con un figlio morto appena nato e seppellito con Frank lungo una strada. Ma Frank poi dirà che avrebbe voluto avere un figlio ma lei era sterile. E poi il lavoro non permetteva avere figli.
Nel ricordo di Teddy, invece è lui stesso che ha assistito il parto di Grace e poi ha seppellito il bambino morto mettendo una croce lungo una strada, mentre Frank giunto in seguito abbronzato non sapeva niente e niente voleva sapere.

Teddy, un Emilio Dino Conti funzionale all’opera nella multiformità della sua brillante ed empatica recitazione. Da un lato entusiasta dei successi della sua creatura, il guaritore (ogni grande artista diventa filosofo, pieno di ambizioni e talento ma senza cervello – usa dire quale preliminare del suo monologo parlando poi di un suo cane genio musicista), dall’altro detrattore della filosofia del suo protetto (gli amici sono amici, il lavoro è il lavoro) che ha fatto male a sé stesso ed agli altri. Racconta che Gracie disperata è morta di abuso di sonniferi ma che in una sera indimenticabile in Galles Frank ha fatto guarire dieci persone. In un’epoca in cui uomini e donne (guaritori e malati) divisi tra la ricerca della rinascita e l’insoddisfazione di una vita che non può cambiare, cullano l’illusione di un potere magico, miracoloso, che può cambiare tutto.

Il monologo finale alla bravura interpretativa di Riccardo De Torrebruna che dopo aver letto un ritaglio di giornale sulla guarigione di ben dieci persone in una Chiesa Metodista in Galles per opera di un guaritore vi trova finalmente la prova della sua identità. A seguire in una suggestione che solo il palcoscenico ed un buon interprete possono dare, la descrizione poetica di un cortile irlandese al tramonto, pieno di attrezzi agricoli, dove il guaritore, ormai vinto, va al suo ultimo spettacolo di magia per un ragazzo in carrozzella ed i suoi quattro fratelli, con il presagio di offrirsi a loro forse come vittima sacrificale.
Di questa visione multipla dell’umanità ne abbiamo parlato con il regista e interprete Riccardo De Torrebruna.

Che cosa hai voluto mettere in scena con il testo di Brian Friel?

Innanzitutto una grande scrittura teatrale, di un autore quasi sconosciuto nella bella traduzione di Carla De Petris,  qualcosa che non si vede e non si sente in giro. Far risalire l’asticella della qualità in un periodo in cui, a parte il riciclaggio dei classici da parte di attori impreparati e supponenti, la drammaturgia italiana è carente di esempi da tenere a mente. E poi un invito sottile a ricordarsi che il potere personale è un’illusione e che nessuno è in grado di cambiare i disegni della propria morte.

Quanto avete lavorato su questo progetto?

Quasi due anni, ma sono 30 anni che ho pensato di metterlo in scena. Da quando vidi Il Guaritore la prima volta al teatro Trianon nel ’90 nella magistrale interpretazione di Gianfranco Varetto. Da allora non è mai stato rappresentato, ma sono io che ho dovuto sentirmi pronto per affrontare un lavoro di questa portata. Ho avuto la fortuna di trovare due compagni di strada altrettanto motivati, come Emilio Dino Conti e Angela Sajeva, altrimenti non ce l’avrei fatta.

Puoi dirci in sintesi qual è la trama dello spettacolo?

Frank Malone è un guaritore il cui dono di natura è volubile, intermittente. Nove volte su dieci non succede nulla e questo gli rovina l’esistenza. Le domande sul mutevole potere divino che è in lui lo perseguitano fino a relegarlo in una degradante dipendenza dall’alcool. Eppure, quando ritorna nella sua terra d’origine, l’Irlanda, accompagnato dai suoi compagni di strada, Teddy, il suo pirotecnico impresario e Grace, la sua sposa, o amante (non sapremo mai la verità e forse non ce n’è una sola, visto che i tre personaggi la raccontano ognuno in modo diverso), avviene una svolta, l’unica che possa assolverlo dal suo tormento. Insomma, è un thriller ambientato nella coscienza di tre personaggi.

A quale pubblico pensi di rivolgerti?

In un’epoca in cui il fatalismo e le dipendenze hanno un ruolo cruciale nelle società, la figura di un guaritore capace di restituire fiducia e benessere agli umani si staglia come un ultimo salvagente a cui affidarsi, la sola risorsa a cui chiedere una ripartenza nella vita. Perciò il pubblico a cui si rivolge è trasversale, da quello che va abitualmente a teatro a quello che per esperienze personali vissute si sia confrontato con la dipendenza e la difficoltà d’inserimento nel contesto sociale e nella “normalità”. Lo spettacolo cerca un confronto diretto e ravvicinato con le persone, perché i suoi contenuti e le sue domande si riferiscono al difficile compito dell’accettazione di sé e della dimensione spirituale.

Ci hai abituato a delle regie molto sobrie, quasi senza scenografie. Anche per Il Guaritore è cosi?

Il progetto di messa in scena non prevede uno spazio necessariamente teatrale anzi, se ne distaccherebbe volentieri, nel rispetto delle circostanze in cui il guaritore e i suoi compagni di strada si trovano a operare. Gli spazi abituali in cui si muovono sono le sale di riunione, le scuole, talvolta gli ambienti delle parrocchie, o le chiese stesse. Pertanto le esigenze tecniche si limitano all’essenziale e lo spettacolo può darsi in situazioni in cui il pubblico è semplicemente raccolto intorno agli attori.

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