Flavio Bucci, indimenticabile Ligabue in tv una vita d’arte e di eccessi

Ricordiamo il grandissimo attore che è stato per tutti noi Flavio Bucci, con l’articolo di Stefano Massini, pubblicato in data odierna su Repubblica

la Redazione

Quanti luoghi comuni si potrebbero scrivere oggi, in occasione della scomparsa di Flavio Bucci, il leggendario Ligabue di una delle pietre miliari della nostra televisione, nel ’77. Era ancora (per poco) la tv del bianco e nero, ma con lo sceneggiato Bucci fece rivivere all’Italia tutti i colori dell’esperienza umana devastante del pittore, venuto a mancare solo dodici anni prima, come in un ideale passaggio di testimonio. Ma poi? Questo è il punto. C’è solo l’imbarazzo della scelta per chi vorrà infierire: “la triste fine dell’istrione in rovina”, “l’uomo dal talento bruciato” e giù col repertorio sul divo mancato che non si salvò dai gorghi del Male. Moralismo allo stato puro, buono da vendersi un tanto al chilo in un’epoca come questa in cui il pacchetto “genio-dannato” pare dischiudere nuovi filoni aurei nella sua iper-sfruttata miniera, e tocca sopportare la passerella strombazzante di circa un paio di nuovi Baudelaire al giorno. Torniamo però al presunto Bucci/ Lucifero che dalle supreme vette sprofondò con l’ascensore della coca fino allo scantinato: c’è qualcosa di perverso, nella bramosia con cui le masse prediligono queste narrazioni di “angeli decaduti”, quasi vi assaporassero il necessario contrappasso all’ambrosia del successo. Peccato che nel caso di Flavio Bucci mancasse del tutto la disperazione conclamata, ovvero l’elemento più ghiotto per i necrofagi catodici che nelle varie “Isole dei famosi” plaudono alle crisi di pianto degli eterni ridenti, al dimagrimento dei tripponi e alla regressione indigena di chi si godeva gli agi dell’attico. Ciò che colpiva di Bucci, viceversa, era la sua completa accettazione del crollo, tale da tradursi perfino in una forma anomala di quiete esistenziale. Testimonierò — per personale conoscenza — che ciò rendeva il suo caso particolarissimo, e meritevole d’essere descritto. Relegato nell’anonimo distretto di Passoscuro in quel di Fiumicino, l’interprete del famoso Ligabue si era appartato da anni in un estremo consuntivo di se stesso, nel quale — con onestà spietatissima e terribile ironia — chiamava per nome tutti i suoi demoni, dalla vodka alle benzodiazepine, dal sesso sfrenato all’amoroso abbraccio quotidiano con Biancaneve. “Me la sono voluta e scelta” era il suo mantra in una vecchiaia in compagnia della nicotina. L’avevo conosciuto oltre venti anni fa, in occasione di uno dei suoi ultimi spettacoli, una delle cui repliche fu candidamente interrotta quando Flavio d’un tratto fissò il pubblico e scandì “mi si è rotto il suggeritore elettronico, la parte non l’ho mai studiata quindi leviamoci tutti di qua”. Un tizio in prima fila, credo, ebbe qualcosa da ridire. Alla qual cosa, con spudoratezza memorabile, quell’enorme omone dal viso scolpito sgranò gli occhi fuori dalle orbite e si congedò così: “Mi faccia il piacere, se ne vada e mi ringrazi, che lo spettacolo fa schifo”. La mia simpatia per Bucci nacque in quel momento, e con essa il bisogno di conoscerlo meglio durante le successive catastrofiche repliche, prima che fosse sostituito. Mi sembrò un’occasione straordinaria per frequentare un Molière redivivo, del tutto incapace di fingere e dunque ossimoro vivente sul palcoscenico. Cercava il pubblico e al tempo stesso lo detestava, preso com’era da una foga da collezionista di fallimenti umani. Era l’essere più incapace di mentire che io abbia mai conosciuto. E in questo stava la sua forza, nel portare sulla scena (o sullo schermo) la cronaca sputata dei suoi abissi, delle sue mancanze, dei crepacci di cui era disseminato il suo ghiacciaio di solitudine. Mi sono convinto che la grandezza nel ruolo di Ligabue fu proprio la sua incapacità di recitarlo: egli era veramente Ligabue, lo era fino in fondo e nelle pieghe più inaudite. Verrà detto, con ogni probabilità, che Bucci fu schiavo di quel ruolo per la vita intera, e che la sua carriera non seppe replicarne gli allori. Temo sia la più epidermica delle analisi, per la semplicissima ragione che Ligabue non fu per lui un personaggio, bensì la più sincera (e drammatica) assenza di maschera. Non è un’occasione che possa ripresentarsi facilmente. Accadde ad esempio nel 2008, quando Sorrentino gli diede modo di incarnare il torbido dell’entourage andreottiano, cosa che fece con quel tipico tratto dolente che — anche stavolta — gli apparteneva in profondità. Tuttavia, ripeto, nella memoria di questo paese distratto resteranno gli occhi spauriti e immensi del pittore di Gualtieri: ne raccontò come nessuno l’alienazione, la disperazione, la fuga, ma il miracolo avvenne perché lui stesso era alienato, disperato e fuggiasco, e a unire i due era in fondo il patto di entrambi con l’arte, intesa come grido necessario, come alternativa al baratro. Quel baratro che entrambi, purtroppo, conoscevano a memoria.

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