Aragoste a Manhattan è un’opera squisitamente contemporanea, che porta tutti gli stilemi di quel tipo di cinema: bianco e nero, riferimenti all’arte moderna, echi sociali, riprese ricche di virtuosismi, scene disturbanti e una certa complessità di linguaggio. Non c’è nulla che il cinema contemporaneo ami di più dei ristoranti, per mettere in scena il caos, ma anche per dare vita a coreografie umane, che danno il senso del caotico mondo moderno. Ma in fondo fare un film è un po’ come fare il servizio di una cena: una squadra con dei compiti precisi che si deve muovere all’unisono. In Aragoste a Manhattan, ci troviamo in una sorta di cucina babilonia/inferno di un ristorante di Time Square, il centro del mondo occidentale, dove si parlano diverse lingue, ci si insulta, si litiga e ovviamente si cucina. Il cibo però ci viene mostrato poco e non è così centrale, quello che è centrale è questa sorta di società gerarchica. Il re di Babilonia, anche lui con velleità da Dio, non è un gringo, ma un arabo Rashid, anche se gli Stati Uniti si sentono il timone del mondo, ma non è così. Il film essendo contemporaneo, è citazionista e si colloca perfettamente nella nuova filmografia sudamericana, la scelta del bianco e nero e del personaggio che apre il film non è casuale, ma un riferimento a Roma di Alfonso Cuarón. Così come i continui piani sequenza, le scene surreali e cariche di personaggi sono un riferimento alla filmografia di Alejandro González Iñárritu, ma Aragoste a Manhattan è di più che un semplice tributo al cinema contemporaneo sudamericano, è un’allegoria del mondo di lavoro moderno, non è poi così diverso da Tempi moderni di Charlie Chaplin, nel film è tutto folle, ma nessuno sembra accorgersene. L’opera mantiene le caratteristiche dello spettacolo teatrale, creando coreografie di volti e di personaggi, poche scene all’esterno, un paio che per fortuna danno respiro ad un universo claustrofobico, quasi tutto avviene all’interno della cucina e nei corridoi attigui. I protagonisti del film condividono gli estenuanti di ritmi di lavoro e l’illegalità, l’unico che sembra riconoscere il problema è Pedro, il protagonista che vorrebbe essere messo in regola e che forse cerca anche modi traversi per farlo, sogna però di tornare in Messico. Il suo malessere è chiaro coi suoi scatti di rabbia e il suo modo di scherzare.
In un Paese dove la spina dorsale è l’immigrazione clandestina, chi ha la cittadinanza americana pensa di essere migliore degli altri. I piccoli privilegi diventano un modo per prevaricare gli altri in una scala sociale, dove nessuno sta veramente bene. Si sente il soffocamento, il calore, ma anche la pressione in questa cucina, dove nulla ha a che vedere con la precisione e la cura di The Bear. Aragoste a Manhattan è un insieme tra teatro, performance, riferimenti cinematografici ( possibili riferimenti al cinema di Éric Rohmer), l’universo di Sepúlveda fatto da personaggi surreali e il richiamo a forse il libro più americano di tutti i tempi Il giovane Holden (“dove andranno le anatre di Central Park quando il laghetto è ghiacciato?”). Tuttavia il film risulta più interessante visivamente che politicamente, si schiera dalla parte degli ultimi, ma è più una visione più da teologia della liberazione della Chiesa, con numerosi riferimenti a Cristo, che a Marx e di sovvertimento delle classi sociali. Anche se c’è basso e alto, cliente e lavoratore, non è una riflessione alla Parasite, alla fine la speranza non è sovvertire il sistema, ma una sorta d’illuminazione celeste e questo cozza con le immagini forti che vediamo nel film, con riferimenti ludistici, che poi diventano citazioni a The Bear e a Metropolis. Una visione così barocca cozza con il messaggio, ma rimane caso studio della cinematografia odierna con due interpreti ottimi, specieRaúl Briones, vera sorpresa del film, e Rooney Mara. In un film che è una critica all’America dei giorni d’oggi, che si vuole ribellare di uno straniero che la sorregge, quando 500 anni fa a Time Square c’erano gli insediamenti di nativi americani. Ma anche al capitalismo sfrenato che rende quasi schiavi i lavoratori. Certe provocazioni alla Lanthimos sono in parte gratuite, ma quello che rimane è un mondo in cui gli immigrati stessi non si accettano e si svendono per diventare come gli occidentali, vedi il discorso di uno dei cuochi sul fatto che le gringe sono bellissime e assomigliano all’idea che ha lui di Dio, ed è questa la parte più forte del film: vengono mostrati dei migranti che per primi non accettano loro stessi, condizioni lavorative e di vita non degne e degradati. È questa è la vera riflessione pulsante e vitale del film.
Giulia Pugliese
Scrittrice
Educazione
2011 - Master in EUC Group & CEERNT European Project
2006/2010 - Laurea triennale in Cooperazione allo sviluppo
Esperienze lavorative
2024 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Odeon
2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online I-Films
2022/2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Long Take
Premiazioni
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