di Barbara Perversi
Non è frequente avere due commenti molto ben costruiti sullo stesso film. Questa volta, invece, dopo l’analisi critica di Pino Moroni, ne segue un’altra di Barbara Perversi, meno critica e più favorevole all’operazione di Fincher.
Un bel modo per suscitare la discussione!
la Redazione
David Fincher elabora, scrive e dirige in grande stile. Soppesa attentamente le storie da raccontare e le snocciola con sapienza indipendentemente dal medium utilizzato (cinema, serial tv, video musicale, pubblicità).
Giunto alla mezza età affronta a suo modo, notoriamente maniacale, il calderone Orson Welles/Hollywood, una matassa quasi impossibile da sbrogliare se non con grande personalità e creatività. E propone la sua opera più alta ad ora, decifrabile da cinefili esperti. Si, la sceneggiatura è stata scritta inizialmente trent’anni fa dal padre Jack, giornalista di Life, dopo lo script dedicato all’Howard Hughes che ha ispirato The Aviator di Scorsese. Padre e figlio sembrano affascinati dalle figure borderline, dal lato ombra che rende inafferrabili e affabulatori, potenti e spudorati, immuni da limiti umani se non la morte.
Fincher lancia nell’agone il più grande attore contemporaneo, Gary Oldman, ribaltando una delle manie wellesiane: trucco, parrucco e nasi finti per immedesimarsi in personaggi, anzi in personae, lontani per età e fisionomia. Il quarantenne Hermann J. Mankiewicz rivive nel volto e nel corpo appesantito ad hoc del sessantenne attore britannico, di cui si sente ribollire il sangue nelle vene, trascinando l’osservatore (nulla di meno per Welles) in un luogo ed un lavoro apparentemente fatati.
Hollywood è stata la Babele per antonomasia del ’900, un pantagruelico mostro che ha sfornato divi e film indimenticabili, ma che soprattutto ha generato il nuovo imperialismo, funzionale al sistema economico-sociale: la creazione e la diffusione a livello mondiale dell’immaginario collettivo. Alimentata da migliaia di speranze, rivalse, edonismi anche talentuosi, la Mecca del cinema ha ammantato di effetti speciali la misera realtà che in maniera davvero commovente il giovanissimo John Fante descriveva nelle sue lettere alla madre. Lo scontro titanico per affermare la propria arte, brama di gloria, soldi e potere che si è giocato a Los Angeles è secondo soltanto all’Olimpo degli dei greci. Chi cavalca i linguaggi artistici parrebbe ad un passo dall’essere inconsciamente appassionato oppure oggetto di studio della scienza criminologica.
Ed il narcisismo è una chiave di lettura imprescindibile, sia del luogo che del film Mank. Scorrendo la produzione di Fincher, il filo rosso che lega i titoli cui ha lavorato sembrerebbe in realtà duplice. Da un lato una messa in scena è al centro della trama, ordita da chi, dall’altro lato, sfida un avversario sovente rappresentante dell’establishment (sia esso la legge, la moralità, il denaro, l’istituzione, eccetera) per affermare se stesso o rivendicare qualcosa che gli è stato sottratto. Fincher recupera davvero l’atmosfera della cultura greca in cui i personaggi erano in lotta con entità al limite del sovrumano.
Quale migliore storia, dunque, di personalità ben al di sopra delle righe che si fronteggiano per la più plateale definizione del proprio ruolo nel mondo? I produttori Mayer e Thalberg ordiscono trame politiche e cinematografiche; Orson Welles, forte dello straordinario successo radiofonico de La guerra dei Mondi, mette a soqquadro la Hollywood che lo schiaccerà di lì in avanti, colpevole di aver sovvertito lo status quo; Mankiewicz, sobrio a lune alterne, grazie al proprio acume ed estro, vomita nella sceneggiatura su commissione la sua lettura dell’indomabile William Randolph Hearst, colui che lanciò il giornalismo scandalistico che va a braccetto col potere.
Così come Quarto Potere ritrasse il suo protagonista attraverso il puro linguaggio cinematografico più che attraverso la storia raccontata, così Fincher ci porta nel mondo che ha reso tutto questo possibile, scoperchiando il vaso di Pandora sull’atto della creazione artistica e affiancando le proprie orme a quelle di Welles e dell’epoca che ritrae.
Mankiewicz sfornò una sceneggiatura grandiosa che solo l’occhio di Welles, affinato dal geniale direttore della fotografia Gregg Toland, poteva trasformare nel film che ha cambiato la storia ed il linguaggio del cinema, della produzione e la vita di molti appassionati. Il gigante gigione, forte di un “talento monumentale”, come dichiarato dallo stesso Fincher, e al contempo dell’incosciente superbia dei vent’anni, si portò dietro l’esperienza elettrizzante del Voodoo Macbeth e de La Guerra dei Mondi. L’universo wellesiano è sempre stato connotato da una vena circense, magica, a proprio agio nella frammentazione dei tempi narrativi e nello sporcarsi le mani nelle pieghe dei chiaroscuri dell’animo umano. E così ha continuato per l’intero arco della sua esistenza, il suo personale palcoscenico. Il primo regista hollywoodiano e indipendente allo stesso tempo, ha filmato the other side of human beings, osannato dai cinefili e amato, da chi lo ha esiliato, dopo la sua morte. E continuiamo a discuterne: è stato il momento giusto per Fincher per riprendere le fila del discorso.