Il potere del cane. Il passato e il futuro in un film pieno di sfumature esistenziali

di Pino Moroni

Artapartofculture

Per poter meglio approfondire il film Il potere del cane (premiato ai Golden Globe 2022 come miglior film, miglior regia e miglior attore non protagonista) bisogna ricordare che la regista neozelandese Jane Campion aveva già vinto tre Oscar nel 1994 con Lezioni di piano ed è considerata la migliore regista a livello internazionale.

Dotata di una cultura letteraria e musicale e di una profonda sensibilità su base razionale speculativa, usa nei suoi film una tecnica cinematografica originale e matura, tecnologicamente impeccabile, piena di atmosfere.

L’incontro con le tematiche di un autore come Thomas Savage, che aveva cominciato a scrivere già negli anni ’40, lavorando come mandriano nel ranch di famiglia, è avvenuto dopo la riscoperta e la ristampa del suo romanzo migliore, Il potere del cane, nel 2001, con prefazione della scrittrice Annie Proulx, premio Pulitzer 1997 (Avviso ai naviganti), autrice de I segreti di Brokeback Mountain, da cui è stato tratto il film omonimo di Ang Lee, vincitore nel 2005 di tre premi Oscar.

immagine per il potere del cane
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Il potere del cane. Il passato e il futuro in un film pieno di sfumature esistenziali

La vita di Savage, vissuta nelle città rurali, in un’atmosfera provinciale, bigotta ed oppressiva, sposato con figli ma con relazioni extraconiugali con uomini più giovani, aveva infatti sempre condizionato il successo dei suoi romanzi, apprezzati dalla critica ma mai diventati best seller.

Il film girato in Nuova Zelanda, con una fotografia fatta di panorami stupendi, che richiamano il Montana dei primi anni ’20 del novecento e western famosi come Sentieri Selvaggi (1956) di John Ford, segue una sceneggiatura (della stessa regista) che scaturisce visivamente dalle pagine sobrie e sensibili del romanzo di Savage.

Ed è in questa perfetta fusione di scritture che va appunto vista la raffinata articolazione, l’intelligente sviluppo e la conclusione aperta di un film di successo.

Intrigante per chi vuol capire le infinite sfumature tratteggiate nei personaggi e nel periodo storico, che molto rassomiglia ai nostri anni ’20 del 2000, anch’essi pieni di cambiamenti certo molto diversi, indotti o meno.

Un film particolare sin dal titolo, che è un versetto del salmo 22 di David, tratto da una Bibbia anglicana del 1600:

Libera l’anima mia dalla spada ed il mio amore dal potere del cane”.

Nel Salmo 22 che ha inizio con: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” e continua “Posso contare tutte le mie ossa. Essi stanno a guardare e mi osservano; si dividono le mie vesti, sulla tunica gettano la sorte” c’è una tale aderenza con il momento del Golgota da poter dire che su esso è stato modellato il Cristo Crocefisso.

Ma un significato meno religioso e più interessante è stato dato alla frase dalla stessa regista che ha rivelato in una intervista:

Il potere del cane sta in tutti quegli impulsi profondi, nascosti ed incontrollabili, che possono venire fuori e distruggerci”.

Come per Phil Burbank (Benedict Cumberbach), il protagonista, un bell’uomo che sotto una scorza machista, dura e violenta cerca di soffocare i propri fragili impulsi umani.

La storia è inserita nel contesto storico americano western, nel momento dello sviluppo borghese e tecnologico dei primi decenni del ‘900. Il nuovo secolo avanza in veloci trasformazioni ed il vecchio, pur soffrendo deve capitolare.

La brutalità, la rozzezza, l’istintività, la legge del più forte, il duro lavoro con il bestiame lasciano spazio ad una società basata sulle leggi ed il commercio (inizio del capitalismo).

E’ il tempo, per chi si è ancorato ad un passato felice, rimasto sopito in nostalgici sussulti nel corpo e nell’anima, in cui bisogna fare i conti e temere la differenza tra quello che è stato ed i radicali cambiamenti (macchine, treni a vapore, vestiti, modi di essere) in una società meno sporca e più raffinata. E così è anche il tempo di porre fine alle sofferenze delle unghiate del cane.

Storia di due fratelli, i Burbank, proprietari di un ranch in Montana, diversi di carattere, Phil capo autoritario e musicista solitario (suona classici come la Marcia di Radetzky con il banjo), un ranchero ancora dell’800, con le sue idiosincrasie e la mania di castrare i vitelli a mani nude, di domare i cavalli bradi, di condurre mandrie per miglia e miglia, senza lavarsi mai, nemico giurato dei pochi poveri indiani superstiti; ha il mito della frontiera e di quei grandi uomini che l’avevano creata, come il suo mentore Bronco Henry, il più grande cavaliere del Montana, di cui conserva la sella ed un fazzoletto da collo con cui si massaggia il corpo nudo quando va a fare solitario il bagno nel fiume.

Il ricordo di Bronco Henry si infiamma nel racconto nostalgico di quando gli aveva salvato la vita dal gran freddo notturno delle montagne, tenendo il suo corpo nudo contro il suo, sotto una coperta.

Il fratello George (Jesse Plemons) invece, più ben messo ma meno attraente, vestito con abiti alla moda, amico del Governatore, dei banchieri e di chi conta, sempre in giro a fare affari, che vede ormai lontano l’eroico passato da cowboy e disconosce tutto quello imparato da Bronco Henry.

Si sposa Rose (Kirsten Dunst) vedova di un ubriacone suicida con un figlio adolescente effeminato, con un velato complesso edipico. La donna fatta oggetto della misoginia di Phil, che in lei vede il suo feminino, inizierà anch’essa ad ubriacarsi. Mentre il figlio Pete (Kodi Smit-Mc Phee), arrivato al ranch per le vacanze scolastiche, dopo aver subito lo scherno di tutti, per i suoi atteggiamenti plastici, artistici e contemplativi, sarà preso sotto la protezione di Phil, che lo toglierà da quella della madre.

Per Phil a guidarlo verso il ragazzo sono i nascosti impulsi omoerotici che lo hanno legato a Bronco Henry ed ora lo attraggono verso l’adolescente che lui era stato. Per Pete questa amicizia è solo strumentale alla promessa fatta alla madre di non farla finire, ubriaca suicida, come il padre.

Basilare il dialogo tra Phil e Pete nelle soste confidenziali delle loro cavalcate. Phil: “Un uomo è fatto di pazienza e di circostanze avverse”. Pete: “Mio padre li chiamava ostacoli e diceva che vanno rimossi”. “Un altro modo di dirlo!”, conclude Phil, senza riconoscere il pericolo di un altro come lui ma più avanti coi tempi.

Perché mentre le strategie mentali di Phil, pur ammorbidito dal contatto con Pete, sono sempre quelle burbere ma schiette dell’uomo naturale antico, quelle del giovane Pete sono ormai quelle della maliziosa e sofisticata conoscenza moderna.

Pete studia anatomia, fa autopsie sugli animali, legge la Bibbia ed ha capito il desiderio di Phil (il potere del cane) e per questo è destinato a vincere la partita.

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Letizia Piredda

Caro Pino, grazie per questa bella e profonda recensione su
un film così ben costruito sul piano psicologico e storico, in mezzo a una
natura intatta. Riesci a condurci man mano a cogliere i segnali impercettibili
utilizzati per far emergere la verità degli impulsi più profondi dei
personaggi, per altro inconfessabili, e il contrasto inevitabile tra due
generazioni: quella burbera e schietta di Phil e quella costruita e perversa di
Pete. Purtroppo per poter apprezzare a pieno questo film bisogna vederlo al
cinema, cosa che mi riprometto di fare appena possibile.

Pino

Grazie a te Letizia per aver pubblicato la recensione del film più bello
dell’altro anno, meritevole dei più importanti premi Oscar. Cari saluti.