
di Giulia Pugliese
Luca Guadagnino torna a Venezia da eroe portando la diva Julia Roberts e un cast stellare, tra cui Andrew Garfield e Ayo Edebiri.
Un film su una tematica moderna e scivolosa: il legame tra morale comune, desiderio dell’individuo e giudizio sociale, ma con una messa in scena legata ad un cinema degli anni ’90, che riprende in parte David Fincher. Il film, che parte con un inizio folgorante registico, mantiene il suo allure stilistico per tutto il tempo, a discapito di una profondità di contenuti, anche perché è un tema che, a livello di elaborazione popolare, è forse troppo presto da trattare.
Sicuramente l’aspetto più affascinante del film è la sua impostazione filosofica sulla morale comune, sul politically correct e sulla libertà degli individui. I personaggi, un’élite culturale di professori di filosofia, sembrano però molto asserviti a tutte le cose che condannano nella società: soldi, status, prestigio e una certa sessualità rampante. Non si analizzano mai internamente, specie la protagonista del film. Questi personaggi così borghesi compiono un gioco al massacro non necessario e gratuito, che fa sì che la protagonista Alma, interpretata da una brava Julia Roberts, che ha visto la possibilità di uscire dai ruoli dell’eroina e della fidanzata d’America, possa recitare la parte di una donna algida e fredda, forse senza anima, proprio lei che si chiama Alma, “anima” in spagnolo. Il suo personaggio, ben delineato, complesso e affascinante, è circondato da veri e propri stereotipi culturali fastidiosi, che tolgono profondità alla storia: la studentessa ricca e viziata, in cerca di attenzione, e un rampante giovane professore, troppo preso a bere e a flirtare con le studentesse per accorgersi di essere circondato da persone pronte a prendersi il suo posto. Forse ci sono uomini che ancora pensano che per rimanere in posti di potere basti essere maschi bianchi.
Tra una discussione filosofica e cene, dove forse farebbe bene a girare meno alcool, si dipana una trama giallo-thriller sul passato di Alma, togliendo profondità al tema centrale. In un film dove gli spazi si restringono tra echi hitchcockiani, specialmente La donna che visse due volte, ma anche Rebecca, le luci di scena sono sempre più fioche, le ombre del passato e dei rapporti umani si avvicinano.

After the Hunt vuole stimolare lo spettatore su temi come consenso, vittimismo, colpevolizzazione della vittima e ricerca di una verità impossibile da sapere e forse poco interessante, come in Anatomia di una caduta: qualcosa che dipende dalla percezione e dai preconcetti dei protagonisti. Ma il film è troppo preso a centellinare una storia intrigante, approfondisce poco e risulta in parte anche morboso nella richiesta di chiarimenti. Come sempre, Guadagnino è maestro nella creazione di personaggi borghesi annoiati e nel creare il fascino discreto della borghesia, ma la malattia di questi, trasforma il contesto rendendolo soffocante ed eccessivamente pesante.
Alla fine, l’unica cosa veramente centrata è la dinamica di potere, con cui Alma prende il controllo, che fa sì che il film diventi più un’opera sul potere e su come usarlo che sugli stereotipi culturali moderni e la libertà individuale. Troppe cose trattate e troppa poca profondità fanno sì che il film scivoli in un’ignobile accusa di colpevolizzazione delle vittime, in uno scontro generazionale e tra sessi, nocivo, poco costruttivo, per nulla interessante e che non aggiunge nulla al tema. Probabilmente non c’è ancora maturità nei tempi per parlare di questo, e la poca empatia che suscitano i personaggi non aiuta.
Risulta un film con dinamiche malate, personaggi inutilmente bellicosi e il rischio di fraintendimento. Yale è la metafora di tutti i centri di potere in America, come Hollywood, dove ormai non conta la meritocrazia ma la politica e l’apparenza. Rimane una messa in scena affascinante, un’ottima prova di Julia Roberts e la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, ottima per creare tensione.

After the Hunt è un film che ha una facciata filosofica, ma rimane un buon giallo, anche un po’ frivolo, che si impiglia in molti aspetti scivolosi e che, per essere un film che vuole parlare di morale condivisa, giudica un po’ troppo i suoi protagonisti, le cui dinamiche sono inutilmente caricate e forzate. L’idea di partenza era ottima, ma si perde per mettere in scena una storia personale che a tratti è un po’ tirata, facendo perdere tutto il contesto e la tematica iper-moderna realmente interessante, che avrebbe fatto incollare lo spettatore al film.
Inoltre, Guadagnino è incapace di farci innamorare dei suoi personaggi, così asserviti al potere, allo status e ai soldi. Questa freddezza sarebbe stata perfetta per un film-saggio sui temi filosofici che l’opera tratta, ma risulta difficile seguire le storie di personaggi a cui ci si affeziona così poco. E qui si ritorna ad Anatomia di una caduta e ai film con una tesi: si deve decidere se dare la priorità alla storia o alla tesi. After the Hunt, scegliendo la storia, perde tutto il suo appeal.
Commenta per primo