di Gianni Sarro
Ponzaracconta.it
Gli anni migliori del cinema di Pietro Germi iniziano verso la metà dei cinquanta. Sullo sfondo un’italietta assopita, provinciale, che cerca di darsi un tono, di civettare con la modernità, senza capire bene cosa sia.
La realtà parla di una nazione bloccata nella scomoda posizione di confine tra i due blocchi dominanti, quello sovietico ad est, quello americano ad ovest.
In Italia tutto è cristallizzato, per fortuna c’è il cinema che dopo l’esaurirsi della spinta del neorealismo, a metà decennio comincia a risvegliarsi.
Grazie a Visconti che con lo sfarzoso Senso (1954), firma una complessa operazione culturale, capace di restituire al cinema una dimensione spettacolare, grazie alle forme del film storico in costume (la vicenda è ambientata nel Risorgimento).
Grazie ad Antonioni, che con I vinti (1953), La signora senza camelie (1954) e Il grido (1957), mette a punto la sua poetica che lo porterà ai successi degli anni sessanta.
Grazie a Fellini, che con La strada (1954) vince il primo dei suoi cinque Oscar [1].
Grazie, infine… ai primi vagiti di quella che diventerà la commedia all’italiana, e di cui Totò e Carolina di Monicelli (1955) può essere considerato il prototipo.
In questo periodo di rinnovato fermento del cinema italiano, Germi ha già girato otto film, che non sono passati inosservati. Bastino due esempi. In nome della legge (1948), vero e proprio western dalle cadenze fordiane ambientato in una Sicilia aspra e montuosa, riscuote un notevole successo di pubblico. Oppure La città si difende (1951) premiato a Venezia come migliore film in concorso, anche se il regista ha sempre sostenuto che quello è il suo film peggiore.
Nonostante tutto però Germi non è apprezzato dalla critica (eufemismo) soprattutto, ma non solo, perché non è schierato a sinistra. Quello che la critica non riesce ad assimilare è l’eclettismo stilistico di Germi, che passa con disinvoltura dal western, al noir, al film in costume. Arrivato alla metà degli anni cinquanta la parabola artistica di Germi è in fase calante. Sembra destinato all’oblio. Invece, inaspettata, anche dallo stesso regista, arriva la svolta, sotto forma di un incontro professionale, quello con Alfredo Giannetti.
Insieme i due firmano una trilogia composta da Il ferroviere (1955), L’uomo di paglia (1958) e Un maledetto imbroglio (1959), tre dei migliori film italiani della seconda metà degli anni cinquanta. Giannetti è autore dei tre soggetti e co-sceneggiatore di Un maledetto imbroglio.
L’operazione più complessa è rappresentata dal terzo film della trilogia, dove Germi riesce nella complicata operazione di trasformare il best seller di Carlo Emilio Gadda «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» (1957) nel coinvolgente Un maledetto imbroglio: un avvincente giallo, dove le indagini del commissario Ingravallo (interpretato dallo stesso Germi) sono spostate dal periodo fascista agli anni cinquanta. Germi sceglie di dare un nome all’assassino, a differenza del libro, dove Gadda [2] lascia in sospeso la soluzione del caso, adombrando nel fascismo stesso il vero colpevole.
Con Un maledetto imbroglio, Germi gira un film, dove contamina ritmi sostenuti a momenti di stasi. Scelta, questa, palesata dal regista nelle immagini d’apertura, che mostrano il contrasto tra il movimento dell’acqua che sgorga dalla fontana, siamo a piazza Farnese a Roma, e la stasi del palazzo.
Questo gioco di contrasti prosegue in tutta la prima sequenza. Sui titoli di testa, inizialmente il commento musicale è drammatico, atto a configurare il clima di giallo, poi degrada verso la dolcezza della ballata romantica.
Nel video qui sotto la famosissima canzone Sinnò me moro, musicata da Carlo Rustichelli, con parole di Giannetti e dello stesso Germi , e cantata da Alida Chelli.
Giallo e storia d’amore sono i due ingredienti principali della narrazione di Pietro Germi nel film. Lo sparo improvviso rompe l’incanto innescato dalla ballata e dalla lenta panoramica. Germi cambia bruscamente ritmo e stile. Da sottolineare il particolare grottesco-ironico dell’intonaco che cade in testa al generale che aveva sparato.
La rilettura del romanzo di Gadda in chiave thriller è un espediente narrativo che permette a Germi di dominare con il suo sguardo -veicolato dagli occhiali di Ingravallo. Lenti/obiettivi che evocano quella della macchina da presa (mdp) di Germi – l’intera narrazione.
È uno sguardo partecipe, quello di Germi, che si posa su una eterogenea folla di bisognosi, reietti, sfruttatori e furbetti vari. Uno sguardo che non è neutro come dimostrano gli schiaffi che Ingravallo rifila ai viscidi Banducci (Claudio Gora) e Valdarena (Franco Fabrizi). Uno sguardo onnisciente, come la mdp, quando ricostruisce il delitto, dando un finale chiaro ed inequivocabile, ancorché dolente, al film.
In chiusura sull’idea di cinema di Germi piace segnalare, alcune interessanti osservazioni dello stesso Giannetti: “Muoveva poco la mdp, spesso ripeteva la scena non per l’attore, ma per i movimenti di macchina, per far coincidere una chiusura sul passaggio di una comparsa e fare uno zoom in avanti o un carrello, per sottolineare. Lui era un grandissimo tecnico, e la sua dote principale era essere, oltreché regista di movimento e di attori, un grande montatore” [3].
Note
[1] –Quattro film di Federico Fellini hanno vinto il premio Oscar come miglior film straniero: La strada (1957), Le notti di Cabiria (1958), 8½ (1964), Amarcord (1975), oltre all’Oscar onorario del 1993.[2] – Con un pizzico di civetteria Gadda, a chi gli chiedeva chi era l’assassino, puntualmente rispondeva: – Non lo so nemmeno io!.
[3] – Pietro Germi, dicono di lui. Intervista a Alfonso Giannetti. In A. Aprà, M. Armenzoni, Patrizia Pistagnesi: Pietro Germi, ritratto di un regista all’antica, Pratiche, Parma 1989.