The End di Joshua Oppenheimer

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di Giulia Pugliese

“L’ Apocalisse avviene ogni giorno per le strade” Bob Marley

Il cinema ha spesso portato il concetto di futuro distopico a un altro livello, fin dalla sua nascita, se pensiamo a Metropolis di Fritz Lang. Joshua Oppenheimer ha forse trovato una cifra stilistica innovativa: il musical. The End non è un vero e proprio musical, le canzoni seguono i dialoghi e, se sentite fuori dal film, hanno poco senso. Così facendo, vengono destrutturati sia il genere fantascientifico-distopico sia quello del musical. Le parti musicali sono il pezzo forte del film, ma non sono trascinanti come quelle hollywoodiani a cui siamo abituati.
Joshua Oppenheimer non è nuovo a queste invenzioni e a giocare con l’assurdo. I suoi documentari, spesso straordinari – tra tutti The Act of Killing – portano lo spettatore nel luogo dell’assurdo, del grottesco, del non-sense e dell’inumano. In The End, invece, siamo a contatto con qualcosa di molto umano. Ci porta in un luogo dove il bello, l’arte, la scrittura e il buon cibo esistono per pochi, in un sistema chiuso, dove arriva una straniera. I riferimenti a Pirandello e a Dogville di Lars Von Trier sono evidenti, senza però assumere tratti così crudeli e violenti. È una post-fine del mondo e un mondo quasi post-distopico, nel senso che non c’è una violenza fisica marcata, né una corsa alla sopravvivenza, né la creazione di una nuova società.
Questa comunità presenta tratti simili alla nostra società: è fatta per pochi, racconta ciò che vuole come meccanismo di difesa, ma anche di controllo, e si chiude per motivi di sopravvivenza. In questo contesto, il musical entra perfettamente, perché è il genere dell’ottimismo, dell’incanto e dell’ingenuità per eccellenza. Nel film, però, assume anche una connotazione di svelamento e manifestazione dei sentimenti dei protagonisti. L’arte rappresenta un passato bello e glorioso, quanto le bugie che i suoi protagonisti raccontano. C’è un sottotesto malinconico dovuto a un passato che, in realtà, non esiste ed una messa in scena teatrale che forse conferisce un’eccessiva meccanicità al racconto.

Paradossalmente, il mondo di Joshua Oppenheimer, che dovrebbe essere diverso, risulta troppo normale e conosciuto per lo spettatore, ed è proprio questo a renderlo quasi confortante. Il film gioca su una comunicazione e una messa in scena bizzarra, inserendo contenuti normali, rapporti di comodo a cui tutti si adattano.
La cifra stilistica del lavoro di Joshua Oppenheimer è forse banalizzare il male? Farci capire che il mondo non finirà con un botto ma con una fiammella? I protagonisti, interpretati da grandi attori come Tilda Swinton, Michael Shannon, ma anche dai newcomer George MacKay e Moses Ingram, danno prove degne di nota, non hanno nomi, ma archetipi: Madre, Padre, Figlio e Ragazza.
È un futuro che ci parla di oggi e del nostro modo di accettare tutto, per una sorta di tranquillità e sopravvivenza. Del mondo esterno si parla, ma poco, e solo in relazione agli affetti, che però si è deciso di lasciar fuori. Anche l’uomo di oggi è in pericolo con il cambiamento climatico, le guerre e le migrazioni? Si può invertire la rotta? Il paragone è proprio con l’uomanità di oggi che, pur potendo prendere decisioni diverse, decide di chiudersi al mondo come i protagonisti di The End. I concetti di “fuori” e “dentro” possono tranquillamente assumere lo stesso significato di confini, sette e luoghi decisionali.

L’opera dà il meglio di sé nei tratti barocchi e ricercati, negli spezzoni di canto o quando la distopia emerge. Il tentativo di bilanciare normalità e stranezza riesce solo in parte, e il film non è graffiante come dovrebbe essere. Tuttavia, questa sembra essere la volontà del regista/sceneggiatore, che fa del bilanciamento “perfetto” di questi due aspetti il tratto distintivo dell’opera, rendendola diversa da quanto visto al cinema finora. Anche la lunghezza ha poco significato: è un film lungo, che forse avrebbe funzionato meglio come serie, perché la psicologia dei personaggi è parziale, e rimane sospesa tra l’archetipo e il personaggio.
All’interno di tutto questo, emerge anche il concetto di civiltà e barbarie della società statunitense, che cresce in seno alla guerra e alla distruzione, fino a non distruggere tutto, facendosi che non ci sia più nulla. Per certi versi, il film apre un dialogo con Megalopolis di Francis Ford Coppola: il mondo di Coppola, come quello di The End, è allo sfascio. Ma se in Megalopolis c’è la figura retta del protagonista, i personaggi di The End sembrano persone colte, perbene e rette, ma non hanno alcuna intenzione di rifondare la società o di fare qualcosa per gli altri. In qualche modo, The End si mette all’opposto di Megalopolis, negando il concetto di speranza del film del regista di Apocalypse Now.
The End ci porta in una sorta di giardino dell’Eden, dove tutto è marcio e finto, ma tutti sembrano far finta di niente per un bene comune di pochi. E, se si legge bene questa descrizione, è molto simile al nostro mondo. L’arte è spesso una fuga dal mondo, una possibilità di conforto, ma l’arte di Joshua Oppenheimer non è mai così. C’è coerenza nel suo racconto, che però non riesce a essere abbastanza incisivo.

Informazioni su Giulia Pugliese 47 Articoli
Giulia Pugliese Scrittrice Educazione 2011 - Master in EUC Group & CEERNT European Project 2006/2010 - Laurea triennale in Cooperazione allo sviluppo Esperienze lavorative 2024 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Odeon 2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online I-Films 2022/2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Long Take Premiazioni Vincitrice del concorso di scrittura per la critica cinematografica over 30 indetto da Long Take Film Festival quinta edizione - 2023

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