“Noi non ci facciamo domande, noi scattiamo perché gli altri se ne pongano” Lee (Kirsten Dunst)
di Giulia Pugliese
Civil War è un oggetto non ben identificato, ma molto affascinante. Una sorta di meteorite kubrichiano, ha tante analogie con altro, ma è diverso. Presentato come un film di guerra, è in realtà una riflessione sulle immagini, sulla forza di queste e sulla testimonianza, in una messa in scena dove significante e significato vanno a braccetto.
Il Texas e la California iniziano una guerra secessionista contro gli Stati Uniti e il suo Presidente, con tanto di bandiera americana con 2 stelle. La guerra civile divampa in tutto il paese, i giornalisti di guerra, che fino a pochi mesi prima si trovavano in giro per il mondo a raccontare altri conflitti, si riuniscono per descrivere cosa sta succedendo, tra sconcerto, incredulità e rabbia. Lee (Kirsten Dust) e Joel (Wagner Moura), rispettivamente fotografa e scrittore, vogliono andare a Washigton a intervistare il Presidente (Nick Offerman), per aggiudicarsi le sue ultime dichiarazioni. In questo viaggio ingaggiano anche Sammy (Stephen McKinley Henderson), vecchio corrispondente di guerra del New York Times e la giovane Jessie (Cailee Spaeny), nuova leva che vuole diventare fotografa di guerra e vede Lee come uno dei suoi modelli. Tenera è infatti la scena in cui Jessie cerca Lee nell’albergo dove alloggia e dichiara la sua passione per il lavoro del reporter di guerra e per le sue foto.
Civil War trova il suo centro nella riflessione sul giornalismo di guerra: è utile? Lee esprime dello scetticismo su questo “tutte le volte che ho fotografato in giro per il mondo pensavo servisse da monito”. Le informazioni hanno ancora potere di cambiare le cose? I media sono ancora il quarto potere? Le immagini colpiscono ancora le persone? Pensiamo al miliziano di Robert Capa, l’Afgani Girl di Steve McCurry, l’iconica foto del bambino che corre nudo scappando dai bombardamenti in Vietnam di Nick Ut o le foto di Alan Kurdi, bambino curdo-siriano morto per scappare dalla guerra, riverso su una spiaggia turca scattata dalla giornalista Nilufer Demir. Queste storie hanno effettivamente smosso le coscienze della società civile e dei governi, ma nella democrazia moderna c’è una sorta di blocco tra opinione pubblica e chi governa, come se il dissenso non funzionasse bene, come smuovere questa situazione? Che nuovi strumenti si devono trovare?
Il regista decide di intervallare il girato agli scatti fatti dai protagonisti per dare un’enfasi stilistica al concetto centrale del film e creare un contrasto attraverso il bianco e nero, lo sfocato e la grana. A dimostrazione che la fotografia è più potente dei video. Alcune scelte tecniche di regia messe in campo sono mutuate dalla fotografia, come l’aberrazione cromatica nei ricordi che Lee ha dei conflitti, mentre si fa il bagno. Si mette in scena un colossal per rendere chiara la potenza delle immagini.
Il film di Alex Garland offre uno spaccato molto vivido dei giornalisti di guerra: pronti a tutto per accaparrarsi una dichiarazione o lo scatto del secolo, malati di adrenalina, soli, solidali tra di loro perché solo tra di loro si capiscono e ricercano nelle peggiori condizioni un attimo di normalità, spesso pagandolo, perché con la guerra non si scherza. C’è uno scavo psicologico nei personaggi e nelle relazioni, Lee che è una donna granitica, cerca di aiutare e proteggere Jessie, perché rivede se stessa o semplicemente perché lei non ha ricevuto la stessa protezione. Sammy è il vecchio saggio del gruppo, a cui tutti chiedono consiglio e Joel ormai vive la guerra con esaltazione, impossibilitato a vivere la normalità. L’opera ci propone diverse generazioni di giornalisti e diversi modi di vedere il giornalismo legati proprio all’età diversa dei protagonisti. La trasformazione da bruco a farfalla di Jessie, denota una capacità sociale dei giovani, cresciuti con i nuovi media, a conoscere prima le immagini violente e quindi questo potrebbe portare a un maggiore distacco o una forma di assuefazione a queste.
Da tutti i personaggi, però trapela una grande umanità e la fatica di rimanere esterni a quello a cui assistono crea una scissione in loro e la scena della battaglia a Washington metterà in luce questa frattura. Nel bene e nel male, i nostri protagonisti, per quanto imperfetti, hanno preso una decisione, hanno una vocazione che è essere testimoni dell’orrore umano e vanno dove i più non vorrebbero stare al solo fine di far conoscere a noi cosa succede nel mondo.
Nel presentarci questa civil war l’opera riprende pedissequamente l’immaginario che è nella nostra testa della guerra, quello che foto, documentari e telegiornali ci hanno mostrato per anni: le grandi esplosioni, i palazzi bombardati, gli aerei sventrati, i campi profughi, fosse comuni e il conflitto vero e proprio. Non c’è un momento in cui ci si confronti con il quotidiano della guerra, ci sono solo momenti tensivi e buoni per essere fotografati o narrati. Cita Apocalypse now (1979), ma la sua volontà non è la spettacolarizzazione della guerra, il film infatti è grandioso, alcune scene sono girate con 8 telecamere insieme, gli effetti speciali ci sono, ma quello che viene ripreso è puro male, violenza gratuita e nonsense. La scena in cui Jessie e un altro personaggio si ritrovano ostaggi di uno dei ribelli, che fa un discorso senza senso, potrebbe ricordare il generale Kurtz (Marlon Brando), ma non emana nessun tipo di fascino a differenza del personaggio del film del 1979. Il regista non vuole che lo spettatore sia affascinato da quello che mette in scena, lo vuole sulle spine e in tensione come se lui stesso fosse all’interno del film.
Alex Garland è troppo intelligente (guardate una sua intervista qualsiasi se non ci credete) per aver fatto un film su un conflitto civile ambientato in America solo per farci empatizzare maggiormente coi personaggi perché occidentali, infatti la scena della distribuzione di cibo e quello che succede in seguito, non è poi così diverso da quello che succede un venerdì pomeriggio a Beirut nel quartiere di Hezbollah. Il film ci mette davanti al paradosso di una guerra che scoppia, senza una motivazione, come tante e la scelta degli Stati Uniti (ma poteva essere anche in Europa), serve ad avvertire lo spettatore sul pericolo della polarizzazione che la politica, i partiti politici e le organizzazioni sociali stanno prendendo. Proprio quando smettiamo di avere valori comuni di società, di capire la posizione dell’altro e quando ci polarizziamo, arriva l’estremismo e la guerra. Viviamo in società sempre più scisse e sempre più estremiste. Questo è dovuto anche allo scetticismo che la società civile ha nei confronti degli organi di informazione. Cosa ha comportato de-legittimare i media? Dall’altro canto che conseguenze porta pubblicare una notizia, senza avere la prova che sia vera, farla circolare e poi smentirla? Perché i media danno la priorità alla velocità rispetto che alla verifica e alla veridicità? I media negli ultimi anni si sono de-legittimati da soli, facendo scelte di marketing a discapito di un’informazione corretta, imparziale, di spessore e che porti a una società civile cosciente di quello che accade nei suoi territori e fuori da questi. Dall’altra parte la de-legittimazione dei media è un modo per la politica, di non essere soggetta a un controllo da parte di questi, se una volta i giornali potevano accusare e far cadere un presidente (vedi Nixon e il Watergate), non so se adesso sarebbe possibile. La grande domanda del film è, ha ancora senso che qualcuno rischi la vita per raccontare storie, a cui diamo attenzione per 10 minuti per poi tornare alla nostra quotidianità? Ha senso che ci sia una classe professionale che si occupa di questo, quando tutti abbiamo a portata di mano una macchina fotografica e arriviamo prima della stampa? Nel 2023 nei vari conflitti armati sono morti 120 giornalisti, la maggior parte di loro è morta nel conflitto israelo-palestinese, giornalisti che vivono lì o in paesi confinanti, che facevano il loro lavoro per riaccendere l’interesse dell’occidente su un territorio che è stato dimenticato per decenni. Mai come oggi questa questione è presente e sentita, mai come oggi l’informazione e i giornalisti sono sotto attacco e pagano con la vita.
Civil war mette l’immagine al centro, ma non fa una riflessione diversa da quella de “La zona d’interesse”, se si perde l’interesse, se ci si volta dall’altra parte, si perde anche l’umanità. Robert Capa diceva “il più intenso desiderio di un fotografo di guerra è la disoccupazione”.