Speciale Nanni Moretti#5

L’autobiografismo: Caro Diario e Aprile

di Angela Caputi

Non esiste il cinema di Nanni Moretti senza Nanni Moretti, è stato detto, ed è vero. Sarà perché recita nei suoi film, sarà perché rappresenta microcosmi che racchiudono la sua storia personale. Senonchè, quei microcosmi, nella percezione degli spettatori, si moltiplicano in macrocosmi frammentati in cui ci si specchia, ciascuno con la propria personalità e con il proprio vissuto.
Senza ombra di dubbio, la sua intenzione è quella di raccontarci raccontandosi, e probabilmente la frase ormai proverbiale che rende manifesta tale intenzione è Parliamo di me (cito a memoria), pronunciata con un tono a metà tra il risolutivo e l’implorante (Parliamo tanto di me è un titolo di Zavattini scrittore) .
Intenzione che il Nostro persegue con costanza e una sorta di narcisismo spinto, in qualche modo perseguitandosi e perseguitandoci attraverso lo sguardo su se stesso e su pezzi del mondo circostante, presente e passato. Uno sguardo che trasuda ironia, ovvero cancellazione del dato di realtà, da cui nasce un genere di commedia – non commedia, in cui è possibile anche sognare un musical, o un ballo pacificatore. 
Una camera mobile e impeccabile mette insieme, montati come in un puzzle, tranches de vie, memorie, sequenze brevi come frammenti, battute icastiche, fotogrammi documentari veri e finti, formalmente realistici, ma di fatto sottotitolati da sottotesti invisibili che instaurano con lo spettatore un dialogo muto, fatto di risate amarognole e talvolta di tenerezza e nostalgia per un mondo sognato e non inverato[1]. L’autobiografismo diventa autoironia e finisce per appartenere a tutti, e alla fine del film il puzzle diventa una storia e un quadro d’insieme: il parliamo di me è anche un parliamo di te, parliamo di noi.
E parliamo di cinema, sempre, mettendo insieme lezioni di cinema secondo me e stilettate anche feroci ai film degli altri. Non a tutti, solo a quelli che ci meritiamo, naturalmente.
Eccezioni volte alla ricerca del fuoriuscire da sé, seppure con esiti non sempre apprezzati (tra i più noti, La stanza del figlio, 2001; Il caimano,2006; Habemus papam,2011; Santiago, Italia, 2017, dopo il viaggio in Cile; Tre piani, 2020 dal romanzo di Eskol Nievo) ce ne sono, ma sta di fatto che il cinema del Nanni nazionale, nel suo insieme, resta nella memoria di noi spettatori come un continuum autobiografico, da Io sono un autarchico ed Ecce bombo a Mia madre a Il sol dell’avvenire.
Entro tale quadro la freddezza di cui è stato a più riprese tacciato è solo apparente; appare piuttosto, nell’ambito del cinema italiano, come un’evoluzione del tutto originale, se non rivoluzionaria, del realismo.

Alcune immagini di Caro Diario, 1993

La sua recitazione non punta tanto all’espressività quanto a creare una maschera, il riflesso in cui ognuno può ritrovarsi, una sorta di allegoria che ha avuto il nome di Michele Apicella (il cognome della madre) fino a che il vero Nanni Moretti non diventa, con Caro diario,1993, la maschera, o l’allegoria, di se stesso (ma la traccia è già in La messa è finita,1985); vi si intravvede lo studio dei grandi classici del teatro cosiddetto comico, oltre alla scelta di un metodo di recitazione.
Dopo la rappresentazione della sua crisi ideologica in Palombella rossa (e c’è da chiedersi se sia un fatto personale oppure no), dunque, con Caro diario l’alter ego scompare definitivamente, per lasciare il ruolo di protagonista al Nanni Moretti attore e regista di se stesso, che si espone in prima persona nella realtà della finzione cinematografica, conducendo abilmente il balletto tra verità vera, verità rappresentata, verità di chi guarda (cioè noi spettatori). Ma così è quella che chiamiamo realtà (lo mostra, in altra chiave, l’amato Fellini).
Il nostro, cercando come Diogene l’uomo, in tre episodi spalanca con lunghe riprese gli orizzonti solitari e magnifici di una Roma deserta, di isole (le Eolie), sprofondate nell’azzurro e ugualmente solitarie, e chiude con l’ombra claustrofobica della paura, della malattia, della morte, fino al sollievo per averla scampata, questa volta.
Solitudine e paura, e le manie che ne derivano, i motivi conduttori, nonostante il tratto fluido e umoristico della rappresentazione.
Tale impostazione mostra un sincero fondo di moralismo e di senso dell’umano, che smuove sentimenti, riflessione e critica collettiva su tematiche esistenziali. L’ambito infatti è ampio e non esclusivamente politico, visto che riguarda la vita delle persone, la storia recente in cui volenti o nolenti sono immerse e il costume italiano, specificatamente italiano. La critica emerge sentita e impietosa, ma senza forzature, sull’onda sonora ed evocativa di canzoni che tutti abbiamo cantato.

Alcune immagini di Aprile, 1998

Per un inopinato effetto speciale (sarà la ‘magia’ di questo cinema?), le contraddizioni, i tic, i controsensi colti dall’occhio della camera appaiono sullo schermo mentre a noi spettatori sembra che il regista- attore – e quant’altro – sia seduto dalla nostra parte a ragionare su chi siamo, su cosa ci muove di autentico nella vita, e su cosa non facciamo per riuscire a cantare insieme in un coro non troppo stonato.  
Ecco, la vita. Aprile,1998, ce la fa vedere, la vita: sta nella nascita del bambino, in una felicità di attesa che cambia le carte in tavola e lo sguardo su se stesso, sta nel barcone di albanesi carico di speranza in una vita migliore. Sta in quelle persone, filmate lentamente, da vicino, con il loro incompreso carico di futuro. Sta nel realizzare, finalmente, il musical con il pasticciere trotskista, dove il confine tra l’io e il mondo, tra il desiderio e la realtà, si fa labile, e la storia privata si fa contraddizione e storia di un’umanità che non riesce a trovare il senso del vivere insieme.  

[1] Moretti utilizza la formula di Abbas Kiarostami, che diventerà il suo regista preferito, dove si mescolano finzione e documentario.

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